Appunti per un'Internazionale Bibliofila
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Come chi ha a cuore le sorti della letteratura ancor più che dell’editoria, in questi giorni ho letto anch’io gli interventi di Giulio Mozzi su Snaporaz e Francesco Quatraro su Il Tascabile, entrambi notevoli per dovizia informativa, il secondo addirittura lodevole per nitore analitico e forza demistificatoria: una lettura preziosa per chiunque si muova nel o intorno al mondo editoriale, in qualunque veste. Tuttavia ho patito in entrambi una mancanza forse piccola, scontata e marginale, ma per me vistosa.
Parto da un passaggio chiave dell’articolo di Mozzi, che parla da operatore pluridecennale nel campo editoriale:
«Quanti tra noi si sentono, in coscienza, di essere ancora (o di nuovo) una forza propulsiva nella cultura e nella società italiana? Non sarà che […] la piccola editoria, nel suo complesso, […] non è più un luogo di pensiero?»
Qualcosa di affine si legge in quest’altro passaggio, tra i molti degni di rilievo, del testo di Quatraro:
«[…] per cosa si scrive: per generare informazioni, per stare al passo con la produzione editoriale, per essere parte di un mercato o per effettivamente produrre pensiero, con la sua dotazione di curiosità, fragilità, parzialità?»
Il «pensiero» è dunque presentato da entrambi come l’intento nobile e l’esito sensato del lavoro culturale: sia degli editori e dei loro collaboratori, sia di chi scrive. Quatraro, tuttavia, spiega bene che la lettura come «principio di scoperta e conoscenza» ha ceduto il posto, nel mercato, alla lettura come consumo e «prestazione», e questo è successo a causa del sistema editoriale così com’è oggi, non suo malgrado. Ciò invalida all’istante ogni nobiltà d’intenti, la quale si rivela, se non ipocrita, almeno una forma di falsa coscienza. A riscattarla, secondo Quatraro, non basterebbe nemmeno la presenza di una critica, che lui chiama «apparato critico», più occupata a posizionarsi e perimetrare il proprio spazio di potere che a esercitare la curiosità nei confronti valori nuovi che non vengano dal centro già consacrato del campo in cui opera.
Nelle sue conclusioni, Quatraro propone di ripensare «il ruolo del libro» affinché la lettura torni ad essere «un gesto significativo», convergendo, mi sembra, con quel che scriveva il libraio Giorgio Gizzi (Harry Crum) in un post su Facebook una dozzina di giorni fa, dove ricordava quanto sarebbe importante, al di là delle autocritiche, restituire e preservare all’oggetto-libro un valore di molto ulteriore rispetto a quello commerciale e di consumo.
Ora, io non so se questo sia ancora possibile, anche se ovviamente me lo augurerei per l’amore che porto alla lettura. Ma mi chiedo: possibile che un siffatto discorso non sia conducibile se non entro un orizzonte dichiaratamente nazionale? Mozzi parla di agire «nella cultura e nella società italiana», perché quello è da sempre il suo campo d’azione, ma cita anche solo autori e critici italiani, come se il dibattito culturale non fosse fatto pure (e forse soprattutto) di transfer da un Paese all’altro; Quatraro si riferisce per lo più allo spazio linguistico e commerciale nostrano, anche se le sue conclusioni hanno la bontà di una questione universale, di civiltà. Ma perché un automatismo del pensiero fa dire che scrivere, pubblicare e leggere libri è qualcosa che si fa “in Italia” e non invece, che so, in Europa, o in Occidente, o in Eurasia, o nel mondo, insomma entro uno scambio culturale sovranazionale?
Mi è chiaro che un editore è costretto a pensare nei termini assunti da Mozzi e Quatraro, poiché la sua clientela è di lingua italiana. Ma un qualunque altro attore del campo editoriale, scrittori e lettori compresi, può forse patire il limite dei confini linguistici e nazionali? Io credo di no, proprio perché è un limite, ed è un limite innaturale, poiché nessun discorso culturale e letterario capace di lasciare una traccia profonda si è mai condotto in una dimensione che non fosse internazionale, interculturale, translinguistica. O sbaglio, e la mia è un’obiezione fallace? O invece faccio parte di una risibile minoranza?
Forse dipende dalla mia postazione ai confini italo-tedeschi del campo, forse da una formazione comparatistica, ma quando leggo o scrivo o traduco o recensisco o insegno non mi viene da pensare che in questo modo sto contribuendo a pungolare la cultura e la società “italiane” (e forse così do obliquamente ragione a Mozzi), bensì ho la sensazione di muovermi in un contesto sovranazionale, anche se mi occupo di un libro italiano, poiché nulla in quel libro, se è un buon libro, è mai soltanto “italiano” – anche se magari non verrà mai tradotto. Un buon libro, concrezione di bellezza e di pensiero nuovo, ha sempre in sé qualcosa di sovraterritoriale: è soprattutto lì che agisce.
In effetti, a ben vedere, più che il limite dell’italianità, a mancarmi nei due articoli di Mozzi e Quatraro è proprio questo: lo spazio del valore estetico e conoscitivo. Si parla di libri come se fossero tutti uguali, tutti "prodotti" ugualmente incapaci (o capaci) di incarnare bellezza e «produrre pensiero», liquidando come accessoria e miope o neppure nominandola – poiché la si presume rimpiazzata dalle stesse scelte editoriali – la critica che dovrebbe invece distinguere e indicare al pubblico i libri buoni e quelli meno buoni. Ma una critica siffatta forse c’è, anche se non opera sotto i riflettori e magari neppure in un’unica lingua.
In ogni caso, a me pare che il tentativo di un rilancio del valore della lettura non possa esser fatto, non oggi, nel perimetro limitato di un solo Paese, è invece uno sforzo da compiere al di sopra di qualsiasi confine. È di un’𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦 𝘣𝘪𝘣𝘭𝘪𝘰𝘧𝘪𝘭𝘢 che c'è bisogno – lo so, l'idea sulle prime fa ridere, forse anche sulle seconde (di qui l'immagine abbinata a questo articolo), ma diamoci un momento: lì infatti, più che altrove, potrebbe nascere un’alternativa all’oligopolio delle corporazioni editoriali e, in Italia, ai loro tentacoli distributivi. La domanda da porsi a quel punto diventa: «Siamo in grado di essere una forza propulsiva nella cultura europea / occidentale / eurasiatica / globale con ricadute sulle diverse comunità culturali e linguistiche?»
In concreto: se sull’onda di modelli come «Lettre international», «Granta» o «Eurozine» si disseminassero nel mondo digitale iniziative plurilingui che siano vivaio, forum e vetrina esclusivi di piccole realtà editoriali, in grado così di costituire un’alternativa alle grandi corporazioni, forse avremmo una base, e plurale, da cui partire. Anzi, probabilmente qualcosa del genere c’è già, o non verrebbe in mente ai non-pionieri come il sottoscritto: si tratta di scovarla.
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