Psiche: il coraggio della cura/1
Il 2 agosto 2022 l’ANSA scrive: “In Europa 3 suicidi di adolescenti al giorno, è la seconda causa di morte”. Anche Bolzano considerata spesso un’isola felice, non è immune alla sofferenza psichica. Ogni tanto viene da pensare che sarebbero forse anche da rivedere i canoni secondo cui questa città godrebbe di un benessere al di sopra delle altre, perché a giudicare dai dati relativi alla salute mentale dei giovani under 35 non si direbbe.
In Italia la svolta nel modo di considerare la malattia mentale, come noto, avviene il 13 maggio 1978 quando entra in vigore la legge n. 180, conosciuta come Legge Basaglia. Prima di allora sia i pazienti psichiatrici trentini che quelli altoatesini venivano inviati a Pergine, dove si trovava l’unico ospedale psichiatrico. Con l’addio ai “manicomi” al quarto piano del padiglione Sud dell’ospedale San Maurizio di Bolzano venne allestito il Servizio psichiatrico di diagnosi e cura. Se ci pensiamo, non è passato molto tempo, e questo è indice del fatto che l’assistenza alla sofferenza psichica è un ambito più recente di quello verrebbe da pensare. Il reparto di psichiatria si divide in due settori, aperto e chiuso. Nel primo stanno i pazienti che vengono considerati più autonomi, nel secondo quelli che si pensa rappresentino ancora un pericolo per gli altri e per loro stessi.
La salute mentale è un tema che si affronta con timore e, al contrario di quello che siamo abituati a pensare oggi, si tratta di una paura legittima e motivata. Non sempre le strutture, infatti, riescono ad accogliere in maniera appropriata le persone che vivono una sofferenza psichica. Quindi, al di là del tabù, c’è un problema effettivo che io stesso ho riscontrato più volte sia in prima persona, ed anche tramite esperienze vissute da amici e parenti. La stessa narrazione che viene fatta dei giovani che soffrono di una patologia psichica è talvolta viziata da pregiudizi, perché ci riporta solamente l’eco di una fragilità e non tutta la forza che queste persone si trovano costrette a sviluppare per sopravvivere.
Nelle ultime settimane ho incontrato alcuni giovani che sono stati ricoverati in psichiatria, o che, in generale, hanno usufruito dei servizi legati alla salute mentale. Questo è quello che mi hanno raccontato.
Chiara, 25 anni, ricoverata per disturbi alimentari.
salto.bz: Quando hai sentito la necessità di un ricovero?
Chiara: Quando mi sono accorta di aver esaurito tutte le mie strategie di sopravvivenza. Ho avuto a che fare col disturbo alimentare fin da bambina e, più passavano gli anni, più soccombevo a questo irrefrenabile impulso che mi portava a voler controllare ogni cosa, non solamente il cibo. Solo che prima del ricovero, avvenuto quando ero al liceo, non sapevo cosa fossero i disturbi alimentari. Certo, avevo già sentito più volte la parola anoressia ma, per quanto possa sembrare assurdo, non credevo avesse a che fare con me.
Come hanno reagito i tuoi genitori?
Una volta comunicata la diagnosi mia madre si è disperata. Sul momento la sua reazione mi ha fatto ridere, perché non era una novità che non stessi bene, ma probabilmente veder scritto su una cartella clinica “Disturbo alimentare” ha reso per lei tutto più reale. Mio padre invece è rimasto distaccato e l’ha presa come un affronto etico, perché il suo commento è stato “con tutti i bambini che muoiono di fame in Africa, tu ti rifiuti di mangiare?”. Quindi da una parte vedevo mia madre alla deriva, dall’altra mio padre che mi giudicava. Questo ha reso tutto più difficile. So che non era loro intenzione, comunque.
Come ti sei trovata nel reparto di psichiatria?
Non è una domanda semplice. Ho avuto a che fare con dottori competenti ed emotivamente presenti che sono riusciti ad ascoltarmi e ad indicarmi possibili terapie, ma ho avuto a che fare anche con chi non potevo credere che lavorasse in quel preciso e delicato reparto. Come un infermiere che un giorno mi ha detto “stando qui ti stai perdendo le cose migliori della tua giovinezza, come il sesso”. Affermazione che, oltre a farmi sentire in colpa, mi ha messo anche a disagio, perché all’epoca ero giovanissima e non avevo alcuna intenzione di parlare di sesso con uno sconosciuto molto più grande di me. In quel reparto la mia fortuna è stata una psichiatra che in ciascuna seduta mi dedicava il doppio del tempo rispetto ad altri medici con cui avevo parlato in precedenza. Quando soffri di una malattia psichica hai bisogno di qualcuno che ti veda, non solo che ti guardi e appunti qualche nota per far vedere al proprio superiore che ha lavorato. I pazienti psichiatrici non sono semplici pratiche da mandare avanti, anche se a volte vengono trattati proprio così.
Nel tempo in cui sei rimasta in psichiatria hai fatto amicizia con qualche paziente?
Chiara: Sì e se devo essere sincera, ti direi che per quanto riguarda le patologie psichiatriche a volte i veri medici sono proprio i pazienti. Che si tratti dell’ospedale o di una comunità. Questo accade perché tra pazienti ci si capisce subito e si crea una sorta di cameratismo terapeutico. Ci si trova nella stessa situazione e per questo non ci si giudica né ci si compatisce. Ci si aiuta a sopravvivere momento dopo momento. Ovviamente questo non succede sempre e, per quanto potente, il legame tra pazienti non potrà mai sostituire interamente una psicoterapia o una terapia farmacologica.
A proposito di terapia farmacologica, come l’hai vissuta?
Chiara: All’inizio avevo paura, ma stavo talmente male che ero disposta a tutto. Gli psicofarmaci funzionano in maniera differente rispetto ai farmaci che assumiamo abitualmente, come l’aspirina. Ogni reazione è differente. Un tipo di antidepressivo può funzionare per un paziente, ma può essere dannoso per un altro. Quindi ci vuole tempo e pazienza per riuscire a stabilire la propria terapia farmacologica. È proprio per questo che moltissimi dei pazienti non ricoverati, e quindi non costantemente monitorati, dopo breve tempo abbandonano la terapia. Comunque adesso, a distanza di anni, ringrazio che esistano alcuni farmaci. Non so come farei senza. So però che quando si comincia una terapia farmacologica il primo pensiero che nasce è “oh mio dio, adesso devo prendere questo farmaco per tutta la vita?” e ci si sente come oppressi da questa condanna. Ma non è una condanna, è un’opportunità e, a costo di sembrare retorica, penso che a volte temiamo le opportunità. Il farmaco poi mica ci esonera dal necessario percorso di introspezione psicoterapeutico. Ci accompagna. A questo proposito c’è un bellissimo episodio di Modern Love, una serie tv Amazon Prime, che parla proprio del rapporto tra diagnosi e farmaci. Il titolo è: Prendimi come sono, chiunque io sia.
Qual è il ricordo più bello e quello più brutto che conservi da questa esperienza?
Chiara: Il ricordo più bello è sicuramente quello della laurea. Non tanto la festa, che non ho voluto fare, ma il fatto di aver terminato un percorso interrotto da crisi, ricoveri, miglioramenti e ricadute. E il fatto di averlo condiviso con la dottoressa che mi ha seguita in questo percorso. Il ricordo più brutto risale a quando mi sono accorta che i miei genitori non mi sarebbero potuti stare realmente vicini, perché non ne avevano le forze.
Ora senti di essere guarita?
Chiara: Abbiamo una strana idea della guarigione. Pensiamo che sia una porta che una volta chiusa, rimanga chiusa. Più che della guarigione, a me piace parlare della cura. Perché la cura ha a che fare con qualcosa che bisogna fare quotidianamente. Quindi no, non mi sento guarita, sento che ho imparato a prendermi cura delle mie fragilità. Ci sono giorni in cui riesco a farlo meglio, altri no e anche con questo ho fatto pace.
Andrea, 29 anni, ricoverato per depressione
salto.bz: A che età sei stato ricoverato?
Andrea: Avevo diciannove anni, stavo studiando all’università e il mio umore è peggiorato progressivamente. A un certo punto ho sentito di essere diventato sensibile al fascino del suicidio. Pensavo al sollievo che mi avrebbe dato, a come avrebbero reagito i miei genitori, a quanta gente sarebbe venuta al mio funerale. Mi fa sorridere perché sono tutte cose che comunque non avrei saputo se mi fossi tolto la vita, però continuavo a pensarci. Poi un giorno quei pensieri hanno cominciato a trasformarsi in progetti. Passavo le giornate in biblioteca con la testa sul quaderno degli appunti, solo che invece degli appunti delle lezioni scrivevo vari modi possibili per togliermi la vita. Insomma, la cosa andava concretizzandosi sempre più, finché ho chiamato il Pronto soccorso e ho cercato di spiegare la situazione. Il personale medico è stato carinissimo, partendo dalla signora del centralino, passando dall’infermiere dell’accettazione e arrivando fino alla dottoressa del primo colloquio. Lì mi sono accorto che avevo bisogno di essere aiutato. Ho provato un sollievo indescrivibile nel parlare coi medici, nell’essere ascoltato e preso in cura. C’è un grande pregiudizio nei confronti della salute mentale e dei servizi inerenti. Pensiamo a questo scenario: sto sciando, cado, credo di essermi rotto una gamba. Mi verrebbe naturale chiamare il Pronto soccorso. Se però lo stesso scenario si presenta nell’ambito della salute mentale, prima di chiamare il Pronto soccorso le proviamo tutte. Chi si rifugia nell’alcol, chi nella droga, chi magari nella competizione per dimostrare che in realtà funziona. L’ho fatto anche io, però a un certo punto le forze si esauriscono e, quando hai fortuna, ti accorgi che hai bisogno di una mano.
Pensi che si ponga sufficiente attenzione alla salute mentale dei giovani?
Qui apriamo una parentesi immensa che prende in causa educatori, insegnanti e politici. Comunque la risposta è ovviamente: no. Certo, adesso c’è stata la questione del bonus psicologo che, per carità, è una buona cosa, ma manca una preparazione per quelle figure che lavorano a stretto contatto con i giovani. A scuola manca un’educazione sessuale-affettiva e un’educazione alla salute mentale che forniscano degli strumenti utili agli studenti per salvaguardarsi. Né io, né i miei amici o amiche facciamo sesso col preservativo, se non sporadicamente. Allo stesso modo nessuno pensa di poter usufruire dei servizi dedicati alla salute mentale. È assurdo. E così diventa difficile aiutarsi anche tra amici, perché non si sa da dove partire. Non ci dovrebbe essere bisogno di arrivare al limite massimo di sopportabilità prima di riuscire a chiedere aiuto. Ci dovrebbe inoltre essere una maggiore attenzione da parte degli insegnanti. Siamo d’accordo col dire che gli insegnanti non possono sostituirsi ai genitori o agli psicologi. Però, in situazioni in cui sarebbe stato doveroso da parte loro intervenire, li ho visti voltarsi dall’altra parte. Per quanto mi riguarda, ad esempio, già alle superiori era evidente che avessi dei periodi bui. In quinta avevo cominciato a tagliarmi con la lametta del taglierino. A volte chiedevo di andare in bagno perché non riuscivo ad aspettare di arrivare fino a casa per farlo. Portavo sempre le maniche lunghe, a prescindere dalla temperatura. Col passare del tempo lo sono venuti a sapere i miei amici, i miei compagni di classe e sicuramente era diventato ovvio anche per gli insegnanti. Ma nessuno ha mai fatto o detto nulla. Penso che non lo ritenessero parte dei loro compiti. Loro erano lì per insegnarti quella materia, punto.
Hai detto che anche tra amici è difficile aiutarsi. Puoi spiegarmi meglio?
Se hai poche conoscenze su cosa fare in caso di malessere psicologico, certamente non puoi essere di grande aiuto. Certo, puoi ascoltare, ma parliamoci chiaro: ascoltare non basta. Soprattutto perché l’ascolto dell’amico non può essere paragonato all’ascolto dello psicoterapeuta o a quello dello psichiatra. Sono importanti entrambi, ma coesistono, non si sostituiscono l’uno all’altro. Prima di cominciare a stare veramente male ero diffidente nei confronti degli psicologi. Mi sentivo giudicato da loro ancora prima di aver provato. Avevo paura che nelle sedute entrassero in gioco le stesse dinamiche che c’erano a casa.
Cioè?
Beh, se non studi è perché non hai voglia di fare niente, perché sei pigro, o perché sei pieno di distrazioni. Non è che magari qualcuno si chiede “Mah, forse questo ragazzo sta male? Può essere che la causa di questi brutti voti sia un malessere psicologico?”. No, questa è un’opzione che a casa mia non veniva presa in considerazione. E, anche se a quel tempo non capivo il perché, ora lo so. Pensare che tuo figlio sia pigro o svogliato ti dispensa dalla fatica di entrarci davvero in relazione. Col tempo ho capito che i genitori sono pieni di sensi di colpa e spesso sono assenti perché hanno troppa paura di aver sbagliato qualcosa. Parlo al plurale perché ho visto che anche per molti dei miei amici era così.
Spesso si sente dire che queste nuove generazioni sono più fragili delle precedenti e quindi per questo hanno bisogno di un’attenzione alla salute mentale maggiore. Cosa ne pensi?
Ma siamo seri? È evidente che le generazioni passate erano abituate a evitare di affrontare i problemi psicologici, non a caso nella sofferenza psichica come prima opzione noi scegliamo di resistere, è un metodo che abbiamo appreso da loro. Resistere, resistere e resistere: questo è il mantra della generazione che ci giudica come più fragili. Che poi parliamo delle stesse persone che giudicano più fragile una persona che piange rispetto ad una che rimane impassibile. Quindi la vera domanda da porsi è: le nuove generazioni sono più fragili, oppure stanno finalmente parlando di un argomento nascosto sotto al tappeto per decenni? È un po’ la stessa storia del Re nudo, visto da tutti e allo stesso tempo da nessuno per paura delle conseguenze. Questa è la generazione che sta urlando: “Guardate! Il Re è nudo!”. Io ci vedo del coraggio, più che della fragilità.
Ottimo, possiamo imparare.
Ottimo, possiamo imparare. Dobbiamo togliere lo stigma che la società produttivo-consumista nella propria superficialità ha cucito addosso ai malesseri psichici.
A mio personalissimo avviso i giovani d'oggi non sono piú fragili, anzi: sono più esposti a stimoli negativi e influenze nefaste sui processi cognitivi prodotti da adulti che vogliono manipolare e sfruttare gli altri per ottenere più potere, scegliendo come preda proprio coloro che sono più indifesi: bambin* e giovani.