A cosa serve l’arte contemporanea
-
Roberto Farneti, docente di Scienza Politica alla Facoltà di Economia, ha da poco dato alle stampe per i tipi di Castelvecchi il libro “L’occhio della madre. A cosa serve l’arte contemporanea”. Farneti lo presenterà alla libreria Cappelli di piazza Vittoria a Bolzano mercoledì 23 ottobre (ore 18.30). Interverranno Federica Vigano (ricercatrice e docente della Facoltà di Scienze della Formazione) e Gabriele De Luca, giornalista e scrittore.
Prof. Farneti, come è nato questo libro?
È un libro per niente estraneo a quella che è la mia attività di ricerca e di docenza universitaria. Direi anzi che è completamente organico a quell’attività, perché lo studio di come le persone si aggregano è un tema ricorrente nell’agenda della mia disciplina. Un’idea diffusa nel sistema dell’arte contemporanea è che l’opera possa essere una sorta di “innesco” per aggregare le persone. Gli stessi musei di arte contemporanea sono luoghi che forse meglio di altri sono riusciti a surrogare il declino delle forme tradizionali di aggregazione del secolo scorso, dalle sezioni di partito politico all’oratorio, dalla discoteca al bar. Essendosi dissolti i luoghi tradizionali di aggregazione e vivendo nell’epoca in cui esistono solo “eventi” – fatti sociali che descrivono situazioni in cui ci si ritrova ma non ci si aggrega - i musei di arte contemporanea cercano di recuperare questa funzione.
Lei parla della frequentazione dei musei di arte contemporanea come di porta di accesso a una “statusfera”, un concetto intrigante. In che modo intende questo termine?
Il termine “statusfera” è stato coniato da uno scrittore americano, Tom Wolfe, per definire appunto quel segmento della società in cui si osservano quelle che io chiamo “manovre posizionali” dove gli attori del sistema dell’arte contemporanea costruiscono (e in alcuni casi vendono) status.
L’arte contemporanea è percepita dall’uomo qualunque come elitaria, finanche esoterica. Si tratta di una percezione indotta e funzionale alla statusfera oppure è un effetto collaterale, non desiderato?
Christian Caliandro - che è il direttore della collana di Castelvecchi dove è uscito il libro – mi diceva che il sistema dell’arte contemporanea ha costruito il mito della propria esclusività, per cui è abbastanza curioso e un po’ paradossale che troviamo in circolazione dei libri per non iniziati che promettono un “ingresso facile” nel sistema usando come strategia la spiegazione delle opere. Come a dire “guardate che queste cose hanno un senso e sono accessibili”. Questi libri finiscono per estraniare ulteriormente, perché effettivamente l’ingresso nelle semiotiche riservate e negli arcana dell’arte contemporanea rimane precluso alla maggior parte di noi. Ciò è funzionale a quella preziosità, a quella specie di fascinazione che gli attori dentro il sistema dell’arte contemporanea cercano di costruire.
-
Ritiene che le opere d’arte contemporanea siano ancora in grado di suscitare una reazione emozionale sincera oppure sono più strumenti per dimostrare competenza culturale e appartenenza a una cerchia privilegiata?
Non esiste soltanto la statusfera, esistono una serie di manovre che non sono posizionali ma sono sperimentali e che si osservano in quelli che sono invece i “piani bassi” del sistema, luoghi diversi e spesso insospettabili… dove gli artisti sono un vero e proprio dispositivo di trasformazione sociale e dove il pubblico è coinvolto per creare delle opportunità di intervento incisivo e trasformativo sulla società.
A cosa allude il titolo “L’occhio della madre”?
Nel libro non cito solo saggi scientifici ma anche tanta letteratura, in particolare il grande romanzo francese, Balzac e Proust, che sono stati dei formidabili osservatori delle manovre posizionali a cui mi riferivo prima. Il titolo invece richiama un film, “Il primo tragico Fantozzi”, citando il momento in cui un collega dell’eponimo ragioniere, durante un cineforum sulla Corazzata Potemkin di Eisenstein, cerca un posizionamento, prova ad essere accreditato e incluso all’interno di una sfera di influenza…
Come si colloca questo libro nella cornice della tua attività di docente e di operatore culturale?
Quelli che i latini chiamavano “Fata libellorum”, i destini dei libri, non sono mai controllabili da parte dell’autore. Nel momento in cui ho deciso di scrivere questo libro, ho cercato un contatto diretto con un pubblico non solo accademico per provare a spiegare come funziona il sistema dell’arte contemporanea. Quello che mi proponevo di fare è l’opposto delle guide di cui parlavo prima, che promettono una specie di facile approdo. Io provo invece a descrivere un sistema sociale di costruzione di significato, mettendone a nudo anche i dispositivi di esclusione che lo definiscono.
Intervista pubblicata originariamente nel magazine online di unibz.