Bühne | Danza

Uno schiaffo di colore al colonialismo

Berlino è lontano dall’Alto Adige, ma non tanto quanto lo è il Sud Africa. Poi tocca a noi decidere quanta importanza vogliamo dare a queste distanze.
We wear our wheels with pride and slap your streets with color… we said ‘bonjour’ to satan in 1820…
Foto: Jérôme Séron
Premessa per chi si chiede che ci azzecca con l'Alto Adige uno spettacolo di danza contemporanea di una compagnia sudafricana, rappresentato in uno storico teatro di Berlino, la Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz, che notoriamente dista centinaia di chilometri dalle nostre verdi valli.
Ammetto di essere di parte e, trovandomi in questi giorni a Berlino, di aver deciso di andare a vedere We wear our wheels with pride… della coreografa Robyn Orlin, perché in KwaZulu Natal, la regione del Sud Africa dove è attiva la compagnia di danza Moving into dance Mophatong che lo ha portato in scena, ho vissuto io stessa per anni, prima di tornare a stabilirmi in Europa e infine a Bolzano, dove ero nata e cresciuta e dove risiedo ora.
L'altro motivo è che sono reduce dalla recente maratona di spettacoli del nostro festival internazionale di danza contemporanea Bolzano danza, tenutosi nello scorso mese di luglio e di cui si è già scritto anche su Salto.bz. Un confronto con la programmazione dell'altrettanto storico festival Tanz im August (giunto all’edizione 34) che si tiene invece annualmente qui a Berlino mi appare quindi naturale.
Il titolo completo del vivace spettacolo coreografato da Robyn Orlin è We wear our wheels with pride and slap your streets with color… and said 'bonjour' to satan in 1820… 
Otto interpreti in coloratissimi costumi, elaborano sul palco, attraverso la musica e la danza, una fetta di colonialismo, incasellato dalla storia, e nelle immagini di vecchie cartoline, come innocuo folklore. Con le loro gioiose acrobazie, il canto e una nota di humor sempre pungente, i danzatori sudafricani portano in scena i conducenti dei tipici risciò e la loro vita.
 
Gli 'hashishi' che nella lingua Zulu significa cavalli, con la loro andatura inconfondibile, innaturale, eppure quasi una danza, e con le loro vistose maschere-copricapo percorrevano nel periodo coloniale, e anche in seguito ancora per molti anni, le strade delle città in Natal, trasportando merce o portando a spasso i turisti bianchi sul tipico carrello dalle grandi ruote. Vite che non contavano per i signori bianchi, vite che mediamente si spegnevano per la fatica, raggiunti appena i 35 anni di età.
Il teatrodanza della coreografa di Johannesburg si ispira ai suoi ricordi d'infanzia in Sud Africa. Il canto iniziale di Anelisa Stuurman, accompagnata sul palco dallo strumentista Yogin Sullaphen, con profondità e intensità inaspettate rievoca gli antichi avi, e lo spettacolo si dipana poi letteralmente come uno schiaffo di colore sulla grigia coscienza coloniale.
Un complesso lavoro di luci, riprese video e proiezioni in contemporanea, restituisce sul palco un caleidoscopico mondo con ombre cinesi, danza, parola, musica a far vincere la gioia sulla tragedia. La gioia della danza degli interpreti Sunnyboy Motau, Oscar Buthelezi, Eugene Mashiane, Lesego Dihemo, Sbusiso Gumede, Teboho Letele si impone sull'amarezza per l'ingiustizia, sull'impotenza che vorrebbe farci tacere, rassegnati al sopruso di secoli.
La danza restituisce dignità ai protagonisti, considerati al pari di animali da soma, usati per il divertimento di beffardi clienti, e ridotti altrimenti alle figure folcloristiche ritratte in vecchie immagini. Come in un rito vudù chi è dimenticato torna in vita, cantando e danzando, riappropriandosi sul palco della propria specifica personalità, semplicemente e con forza.
 
La platea viene coinvolta in un irresistibile rito interattivo, quasi senza accorgersene, mentre gli attori sul palco annoverano tra gli avi il vecchio Goethe, ammiccando al paese che ospita lo spettacolo, per la prima volta rappresentato oggi in Germania.
Da Europei siamo tutti coinvolti nella storia del colonialismo in Africa. E anche se quel 'bonjour satana' ricorda un episodio e una data precisa, il 1820 in cui migliaia di coloni anglosassoni si trasferirono in Sud Africa corrompendo e assoggettando la cultura autoctona delle tribù Zulu in Natal, è bene non assolversi e riflettere sulle responsabilità che abbiamo tuttora verso il continente africano, ovunque ci troviamo che sia una grande città multiculturale o il piccolo paese alpino con anime e hotel raccolti intorno a una chiesa.
Lo spettacolo di Robyn Orlin è un'esplosione di moderna e antica cultura africana. Tra le pieghe dei colori, le visioni multimediali e i movimenti contemporanei affiora l'antico animismo. Le maschere con le corna dei danzatori, anche se riadattate e rese leggere e ironiche, ricordano ancora quelle di riti e culture ancestrali. E accomunano con l'Africa persino le sperdute valli sudtirolesi. Anche qui, da Sarentino a Termeno, si coltivano e vivono, in parte adattati ai turisti, antichi riti carnevaleschi, con personaggi cornuti, Krampus o simili, le cui origini si perdono nei tempi.
 
Che lo vogliamo o meno, le radici dell'umanità sono comuni, come dovrebbero essere i diritti. E tutti alla fine cerchiamo forse di scacciare i fantasmi che agitano il nostro passato.
L'incontro con altre culture è sempre un suggerimento e un invito. Berlino docet, in questo caso. Il programma del festival Tanz im August, con artisti e compagnie provenienti anche dalla Thailandia, il Sud America o l'Australia può essere un concreto suggerimento alla direzione artistica di Bolzano danza, già predisposta al superamento di confini, di ampliare ulteriormente gli orizzonti, volgendo lo sguardo fuori dalla confort zone dell'Europa.
Chissà, forse accadrà in un prossimo futuro di condividere così anche dalle parti di Bolzano Bozen, l'umanità che trasuda nella danza creata da una Robyn Orlin, oppure la ricerca contemporanea di Pichet Klunchun che in Asia si confronta con la tradizione della danza khon, o un assolo a difesa dell'Amazzonia della coreografa colombiana Marta Hincapié Charry oppure il progetto internazionale Marrugeku che coinvolge tra l'altro danzatori aborigeni dell'Australia.
 
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Hartmuth Staffler Mi., 24.08.2022 - 14:49

Wenn ich in Südafrika bin, muss ich immer daran denken, dass dort im Jahr 1948 die Rassentrennung (Apartheid) eingeführt wurde nach dem Vorbild der vom faschistischen Italien in Äthiopien praktizierten Rassentrennung. Als Südtiroler sollten wir für diese Dinge sehr sensibel sein.

Mi., 24.08.2022 - 14:49 Permalink