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Siamo tutti nazisti?

Lo spettacolo della Compagnia dei Bravi, ambientato in Alto Adige, apre alla riflessione sul retaggio nazista che ciclicamente torna a pervadere le tragedie dell'umanità.
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Foto: Marco Loss

C’è un germe nazista in tutti noi? É la riflessione che prelude alla messa in scena di Dissoluzione, spettacolo portato sul palco dalla Compagnia dei Bravi, fondata poco più di un anno fa da alcuni giovani attori trentini. Per il loro debutto la compagnia ha deciso di affidarsi ad un testo del regista Giulio Federico Janni, il quale, per l’occasione, ha ripreso la sceneggiatura di un vecchio lavoro incentrato sull’indifferenza e sulla autoassoluzione davanti alle tragedie umane che continuano ad avvicendarsi ancora oggi e che, ancora troppo spesso, vengono liquidate con indulgente noncuranza. Il dramma, ambientato in Alto Adige, si muove tra i dialoghi degli invitati alla cena dei Kofler, i quali sollevati ed entusiasti per essere riusciti a schivare le pesanti accuse di crimini contro l’umanità, si lasciano andare a festeggiamenti e brindisi nostalgici, davanti ad passato troppo frettolosamente archiviato, che finisce per ripetersi in rinnovate tragedie. Dopo il debutto a Pergine Valsugana, la trasferta a Milano, Dissoluzione torna in Trentino nelle serate di venerdì 24 febbraio al Teatro Sanbàpolis di Trento e di sabato 25 al Teatro di Meano: ne parliamo con Valentina De Cecco, presidente della Compagnia dei Bravi e Giulio Federico Janni, regista e drammaturgo. 

Salto.bz: De Cecco e Janni, il tema scelto per il debutto della compagnia è abbastanza inusuale, cosa vi ha portato a prendere questa decisione? 

Valentina De Cecco: Inizialmente avevamo pensato a qualcosa di meno drammatico, che potesse avvicinarsi alle classiche aspettative per il debutto di un gruppo di giovani attori. Poi, però, abbiamo deciso di fare qualcosa di diverso, con una pièce originale, ma dal messaggio potente che riuscisse a smuovere gli spettatori.

Giulio Federico Janni: Dopo una lunga discussione gli attori della compagnia si sono appassionati a questa mia vecchia idea iniziale, che ho ripreso e completato, calandola nel contesto dell’attualità. Abbiamo voluto alzare l’asticella e deciso di cambiare approccio, anche per stupire il pubblico, spesso abituato a vedere i giovani cimentarsi in interpretazioni considerate più leggere. 

 

 

Perché il titolo Dissoluzione? 

V.D.C.: La dissoluzione si riferisce al decadimento fisico e morale che i personaggi subiscono durante lo spettacolo. Si tratta di un progressivo sgretolamento della parte più nobile dell’essere umano, che attraversa qualsiasi epoca. Proprio per questo abbiamo optato per una recitazione volutamente grottesca e per una copertura del volto con delle maschere: un effetto per aumentare l’atemporalità della messa in scena. 

Qual è stata la motivazione che ha portato a scegliere come ambientazione l’Alto Adige? 

G.F.J.: L’Alto Adige è un territorio di confine che ha vissuto e vive di diverse anime. Questa regione ha dovuto affrontare  una lunga storia, costituita da molti eventi spesso travagliati, con cui non sempre, però, ha saputo fare i conti e che, al contrario, a volte hanno finito per definire ancora di più le barriere sociali e territoriali. Il grande problema del retaggio fascionazista non è poi solo altoatesino, anche nel resto d’Italia abbiamo velocemente abbandonato le divise per salire sul carro dei vincitori, senza analizzare le nostre colpe. L’Alto Adige, però, si è trovato stretto tra Austria, Italia e Germania e mi sembrava importante far partire da qui la riflessione, in un lavoro che prende spunto anche dall’opera di Thomas Bernhard. 

 

 L’Alto Adige è un territorio di confine che ha vissuto e vive di diverse anime. Questa regione ha dovuto affrontare  una lunga storia, costituita da molti eventi spesso travagliati, con cui non sempre, però, ha saputo fare i conti

 

Lo spettacolo è già andato in scena in Trentino e a Milano, quali sono state le reazioni del pubblico? 

G.F.J.: Avevamo delle paure diverse rispetto alle date proposte. In Trentino temevamo che Dissoluzione potesse essere troppo forte, ma, per fortuna, il pubblico ha dimostrato di apprezzare lo spettacolo e il suo intento. Anche a Milano, davanti ad una platea più esigente, siamo riusciti a scuotere gli spettatori e abbiamo ricevuto recensioni molto positive. A breve abbiamo in programma un’altra trasferta, in Puglia, e siamo curiosi di vedere come reagirà anche questo territorio. 

State pensando di portare lo spettacolo anche in Alto Adige? 

G.F.J.: Ci piacerebbe molto. Non è sempre facile trovare la giusta disponibilità, ma vorremmo proporlo anche a Bolzano. La scelta dell’ambientazione, infatti, non deve essere letta come un’offesa, ma come uno stimolo, per aprirsi ad una riflessione che interessa comunque tutta Italia. Inoltre grazie al tedesco ho potuto giocare con i cognomi dei personaggi, aggiungendo alla base Kofler dei prefissi che sono indicativi del ruolo dei protagonisti. 

 

 

Il mondo del teatro è spesso considerato minoritario in Italia, è una sensazione che anche voi avete riscontrato? 

V.D.C.: Come compagnia appena fondata e composta soprattutto da giovani ci capita di scontrarci con diverse problematiche. Succede di trovare ostilità da parte di altre compagnie e di dover far fronte spesso alle difficoltà di un settore lasciato sempre indietro, soprattutto nel campo dei finanziamenti. In Trentino il numero dei bandi è leggermente superiore, ma in generale ci sono pochissime occasioni. Questo si traduce poi in un circolo vizioso che non aiuta ad attrarre il pubblico, il quale si confronta spesso con una scelta ridotta rispetto al potenziale. 

Proprio il pubblico è un altro tema fondamentale, il teatro sta vivendo un’emorragia di spettatori? 

V.D.C., G.F.J.: In Italia purtroppo i giovani non vanno a teatro e ci capita di avere a che fare con persone molto adulte, abituate a concepire il teatro alla vecchia maniera. Si tratta di una caratteristica nazionale, che però rappresenta quasi un unicum in Europa, dove invece il teatro è visto come uno strumento per analizzare e riflettere sulla realtà. 

Da cosa dipende questo fenomeno? 

G.F.J.: Per anni si è lasciato molto spazio solo ad alcuni tipi di intrattenimento, facendo trasparire il messaggio che il teatro fosse fondamentalmente elitario e che, invece, ci si dovesse abbandonare all'accezione negativa di popolare, come sinonimo di volgare e semplicistico. L’arte, però, ha il grande compito di prendere per mano lo spettatore ed elevarlo, non in maniera autoriferita o volutamente contorta, ma in modo che si possa davvero dare forma ad emozioni e riflessioni. 

V.D.C.: Spesso poi si pensa all’ambiente teatrale come ad un ritrovo per coloro che non hanno voglia di dirigersi verso professioni considerate più qualificanti, per i fannulloni o per coloro che hanno velleità artistiche senza particolari esigenze economiche, mentre il lavoro di attori, drammaturghi e registi resta importantissimo, non solo per intrattenere, ma anche per scandagliare realtà sociale e personale.

 

 Sentire il palcoscenico come qualcosa non solo di utile, ma di necessario, e rivedere i preconcetti che accompagnano questa esperienza artistica, percepita erroneamente come distante

 

Quale può essere quindi il futuro del teatro? 

V.D.C.: Iniziare con il cambiare la prospettiva generale: sentire il palcoscenico come qualcosa non solo di utile, ma di necessario, e rivedere i preconcetti che accompagnano questa esperienza artistica, percepita erroneamente come distante. 

G.F.J.: Accanto a questo bisogna aggiungere che anche il teatro deve fare scelte coraggiose e tornare a proporre spettacoli con un forte ancoraggio alla realtà. Non si tratta di un cambiamento che può avvenire immediatamente, probabilmente ci vorranno anni e si dovrà ripartire dalle basi, ma in altri paesi la scena teatrale è considerata uno strumento capace di sentire il tessuto sociale, di elaborarlo e restituirlo. Anche qui in Italia dobbiamo riappropriarci di questa capacità.