Film | La recensione

Meno gnè gnè, più Zerocalcare

In brevità vi dico: Strappare lungo i bordi è un capolavoro di serie, malgrado il rumore di questa noiosissima caccia all’indispensabile difetto.
Zerocalcare
Foto: Screenshot

Vabbè, io sono di parte. In quella Roma “sciattona e sgangherata”, come la definiva Flaiano, ci sono nata, cresciuta e mi ci sono acchiocciata. A Roma abitare è una forma di essere. È del tutto naturale perciò che, di fronte a tutti i capisaldi topografici della mia adolescenza (e post-adolescenza) in versione animata, Strappare lungo i bordi, la serie tv scritta, diretta e doppiata dal fumettista Michele Rech per tutti Zerocalcare, mi faccia lo stesso effetto-nostalgia che arpiona alla sinistra del petto il critico gastronomico disneyano Anton Ego quando assaggia la ratatouille che gli ricorda la cucina di mammà.
Lo scudetto della Roma al Circo Massimo, il centro sociale La Strada a Garbatella, la tangenziale est di notte, la periferia che ci fa sentire a casa, lo storico negozio di dischi nel quartiere San Lorenzo dove noi ragazzini goffi e sgobbati andavamo a comprare compact disc e vinili coi soldi risparmiati saltando le merende di metà mattina a scuola.
Nonostante l’impronta individualista il mio, giuro, non è un viaggio fra le derive dell’io, egoriferito, narcisista, perché questa impressione che la serie “stia parlando di me”, di gente che vive vite disordinate, provvisorie e in attesa di qualcosa, è una sensazione condivisa, e saperla innescare è da sempre - come dimostrano i suoi contenitori narrativi - uno dei più grandi talenti di Zerocalcare.

 

Di Strappare lungo i bordi in questi giorni si parla però non solo con intenti celebrativi. Qualcuno polemizza - in casi specifici in modo sommario (non importa se per malizia o per grossolanità) - sul fatto che il linguaggio della serie sia “troppo romano” (c’è anche il manuale di sopravvivenza, sai mai). Magari la difficoltà di comprensione sta nella dizione, non nel dialetto? Polarizzare o morire, impone il mainstream.
Ora, non per estasi identitaria ma in nome della fatica del pensiero, che pure qualcosa conta, andrebbe detto che se gli abitanti di Rebibbia li facciamo parlare come quelli di Ponte Milvio forse, dico forse, non abbiamo capito granché di ciò che abbiamo visto per sei puntate. È nell’autenticità, nella riconoscibilità e nella schiettezza dei personaggi di Zerocalcare che si definiscono la sua poetica concettuale e i suoi stilemi. E un autore così connotato - anche “linguisticamente” - dovremmo custodirlo sotto teca, andarne fieri, non trovargli un difetto a tutti i costi.
«Perché il romano dice “fero”, “guera”, “a borsetta”? Perché non fa nessuno sforzo, non lo vuol fare, altrimenti sarebbe un italiano perfetto il linguaggio romano, e invece: “fero”, perché è indolente, “a guera”, “er sole”, “a borsetta”» sosteneva Alberto Sordi, e peraltro (mutatis mutandis) del suo di romanesco nessuno si è mai lamentato.

Annamo a pijà er gelato?


 

Zerocalcare parla di sé, di ciò che conosce. Di quel senso di disagio e inadeguatezza che è universale. Incarna perfettamente uno spazio di significazione collettiva, un vissuto comune che abbraccia una generazione intera - sintesi di qualunque disillusione dalle ambizioni, disincantata a vent’anni, ancora irrisolta a quaranta, con il suo carico di seghe mentali, nevrosi, ossessioni, incomunicabilità, rimorsi, fughe dissociative, pizze “stocazzo” vilmente mancate, angoli della bocca che puntano al pavimento, con lo smarrimento come condizione inequivocabile del tempo in cui viviamo e la paura di seminare sempre e raccogliere mai.

Una sorta di memoir pieno zeppo di dettagli creativi e citazioni della cultura pop, lanciato a tutta velocità, tra flashback e trovate surreali (alcune comicissime come la versione domestica del “Trono di Spade” o il cane robot che “suona” Per Elisa), per rallentare quando il flusso di coscienza inizia a lasciare spazio a quello che striscia sotto. Un viaggio in treno che Zero fa con i suoi amici d’infanzia Secco e Sarah, e con l’immancabile Armadillo doppiato magistralmente da Valerio Mastandrea sempre di guardia, lo porterà a fare qualche conto col passato, con quella specie di ovo sodo dentro che non va né in su né in giù, con quel desiderio e quell’esigenza di sentirsi adulti e non saper da dove cominciare, con l’accettare la responsabilità di essere solo un filo d’erba e riuscire a sopportare i momenti in cui “Aò, è annata così”.