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“Beh... mi pare bene...”
Foto: Archivio Paolo Marchettini
Paolo Marchettini è clarinettista e compositore. La sua musica è edita da Raitrade e dalle Edizioni Curci, interpretata da rinomati ensemble europei e nordamericani. Lo abbiamo intervistato, in attesa di ascoltare la prima esecuzione dell'opera che la Fondazione Haydn gli ha commissionato.
Salto.bz: La sua formazione quale compositore è avvenuta a Roma, ha avuto Ivan Vandor e Azio Corghi quali maestri, e poi a New York con Richard Danielpoor. Un ricordo dei suoi Maestri?
Paolo Marchettini: Vorrei ricordare anche il mio primo maestro di composizione Luciano Pelosi che mi ha stimolato la libertà e curiosità verso tutte le tecniche storiche. Successivamente sono entrato nella classe di Ivan Vandor, uno dei migliori allievi di Petrassi. Vandor è stato inizialmente scioccante. Il maestro metteva in discussione ogni mia decisione, chiedendomi la ragione profonda di ogni scelta. “Lei lo sente?” Era la frequente domanda che mi poneva. Mi aspettavo complimenti che Vandor non faceva mai. Al massimo, se proprio si era fatto un bel lavoro, si riceveva un: “beh.. mi pare bene..”. Tutto ciò mi è servito infinitamente per il mio percorso artistico e anche umano. Il “sentire” interiormente ciò che si scrive è requisito fondamentale. Con Corghi ho fatto i tre anni di perfezionamento all’Accademia di Santa Cecilia. Quell’ambiente è stato di grande stimolo per crescere e a migliorare. Nella sua classe c’erano davvero molti allievi di grande talento e capacità. Corghi era un grande artigiano e con lui ho lavorato molto sull’orchestrazione e sulla raffinatezza di scrittura. Richard Danielpour, allievo di Leonard Bernstein, è arrivato quando ero già un compositore formato. Con lui c’è stato uno scambio e un arricchimento di vedute. Sono stato anche il suo assistente per un paio di anni. L’approccio spontaneo e libero americano mi è servito a liberarmi di troppe preoccupazioni stilistiche che avevo. Ora mi sento più libero di coniugare differenti approcci e stili, pur cercando di rimanere coerente e personale.
Quando compone, utilizza il pianoforte, o le basta carta e matita? Ha bisogno di avere silenzio attorno a sé?
Di solito compongo con carta e matita sulla scrivania. Successivamente utilizzo il pianoforte solo per verificare che la mia intuizione (soprattutto armonica) sia quella che immaginavo. Il computer per me è solo per la trascrizione finale; ho bisogno del contatto diretto con la mia scrittura, che ritengo parte fondamentale del mio mondo creativo. Il silenzio è importante, soprattutto quello interiore, che però viene dopo una grande concentrazione. Nel mondo moderno abbiamo spesso paura di questo silenzio che ci porta a confrontarci con le nostre parti più buie e nascoste. Il lavoro del compositore è una forma di introspezione e di ascolto profondo.
Armoniosi Accenti è il titolo che ha dato all'opera commissionatale dalla Fondazione Haydn. A quali accenti allude il titolo?
Il titolo proviene da un bel verso di Ugo Foscolo. L’ho scelto perché mi pareva descrivesse bene le mie intenzioni per questo brano. Il mio lavoro, infatti, parte tutto da un accordo iniziale e dalle sue ripetizioni, dai suoi accenti. Le note prendono vita quasi uscendo da un liquido amniotico armonico, escono dal profondo e incominciano a danzare in modo a volte imprevedibile. L’armonia di partenza deriva in realtà proprio dal primo brano in programma, la grande Serenata n.10 in si bemolle maggiore, k 361 di Mozart (terzo movimento). Danze dai molti colori, inaspettate luci, e momenti in ombra. Una breve citazione dalla Sinfonia No.104 di Joseph Haydn (piccolo omaggio all’orchestra Haydn di Bolzano) porterà all’accordo iniziale che torna in un esplosivo fortissimo. Un’intima sezione finale chiuderà il lavoro. Il contrabbasso, unico arco presente, in solitudine, prenderà la scena finale. Ho avuto in mente per questo lavoro un certo approccio classico alla forma, in qualche modo legato a Haydn e Mozart.
Lei vive a New York, insegna al Berklee College e alla Manhattan School of Music. Tra i suoi lavori recenti figura “Modi di sentire”, una composizione dedicata agli studenti che esplora le scale antiche, quelle esotiche, il sistema dodecafonico e l’aleatorità. Quale era il suo intento?
Quel lavoro è stato scritto appositamente per i miei studenti. Aveva la funzione didattica di rendere familiari scale, modi e tecniche tipiche della musica del ‘900 e dei nostri anni. La particolarità è che ciascun strumentista doveva cantare e suonare allo stesso tempo. Ci siamo divertiti molto a preparare l’esecuzione. Credo molto nel suonare sperimentando insieme; la musica deve essere strumento di coesione, di comunicazione e aggregazione. La musica classica contemporanea deve ritornare ad essere pratica, accessibile, e capace di stimolare la voglia di incontrarsi.
Pensa con Dostoevskij che “la bellezza salverà il mondo?”
Non so se può salvare il mondo ma di sicuro può renderlo un posto migliore in cui vivere. Ma la bellezza è anche nel modo di vedere le cose, non credo in una bellezza ideale statica. Ci sono tante bellezze, così come infinite sono le forme del mondo.
Ci segnala un libro che è stato per lei importante?
Ho amato molto Narciso e Boccadoro di Hermann Hesse. Il contrasto tra una ricerca assoluta, di purezza, e il desiderio di calarsi nel mondo con tutte le sue contraddizioni. Il bisogno di ascetismo e voglia di vivere appieno sono tematiche di questo libro che mi toccano particolarmente. Il compositore, come ogni artista e pensatore, ha bisogno di molto tempo di solitudine, per riuscire a entrare in contatto con ciò che è oltre lui stesso. Questa solitudine necessità però di un bilanciamento, di un tuffarsi nella vita, con i suoi colori, profumi e caos. In quel libro questi due opposti sono rappresentati dai due personaggi principali. Sono come due fratelli, due lati di una stessa medaglia che appartengono a ciascuno di noi.
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