Kuperion: modesta grandezza di un artista vagabondo
Ricevute scritte a matita su foglietti strappati dal bloc-notes. Miniature astratte tratteggiate su cartoncini recuperati disfando pacchetti di sigarette. Un curriculum stilato con grafia incerta, che racconta una vita con la semplicità di un tema scolastico: mamma morta presto, papà piccolo contadino della Val Venosta, poi divenuto sindaco e successivamente consigliere a Innsbruck, gli studi dallo zio prete, poi all'istituto agrario e mai in una vera accademia, e un unico desiderio: una dimora-atelier migliore di quella in cui vive, senz'acqua corrente, senza riscaldamento, senza luce. Mentre mi aggiro per la mostra di Alois Kuperion, curata da Ursula Schnitzer a Merano Arte, con la sua ricchezza di documenti e testimonianze, sono presa da una forte sensazione di avversità nei confronti di tutti i giovani che oggi vogliono fare gli artisti, con mamma e papà pronti a pagare la formazione presso prestigiose accademie di Londra, Berlino o Vienna. Torneranno un po' più arroganti e un po' più frustrati, per la maggior parte padroni di un'arte deludente, e inizieranno a lamentare le asperità della vita dell'artista.
Non credo che Alois Kuperion sia stato un grande artista. Ma è certamente stato un artista più grande di quanto egli stesso abbia saputo. Questa cornice di semplicità, modestia e purezza che contorna il suo lavoro ha su di me un effetto estremamente benefico.
Kuperion, artista-clochard, non ha mai frequentato un'accademia. Lo si vede bene nella grossolanità dei suoi tentativi più figurativi. E' finito all'arte per caso e necessità. Destinato dalla storia famigliare e dalla volontà paterna a fare il contadino, non era stato dotato dalla natura degli strumenti fisici per assecondare tale destino. E i monti e i campi a cui avrebbe dovuto prestare il proprio sudore, finiscono per limitarsi ad essere oggetto di osservazione. L'osservazione è la vera scuola di Kuperion. Racconta che fu spinto alle prime sperimentazioni di disegno e pittura dopo che il padre gli ebbe mostrato due disegni a carboncino.
Vede a Merano le grandi mostre degli anni Cinquanta e Sessanta, con le opere di Klee, Pollock e Picasso. In Austria vede i Fauves, Matisse, Manet. Un viaggio in Italia gli disvela l'opera dei grandi maestri del Rinascimento. L'arte la osserva, Kuperion, e la assimila intuitivamente. I suoi paesaggi si trasformano presto in tavole astratte in cui rivendica di poter esprimere una propria libertà. Nella pittura non è costretto a subire il reale, nella pittura può fare ciò che vuole.
Gli amici artisti di Merano lo stimano e lo rispettano, gli osti lo malsopportano quando chiede di scambiare un dipinto con un bicchiere di rosso. Oggi, molti di coloro che hanno comprato le sue opere inconsapevolmente, per compassione, sono i prestatori della mostra.
Kuperion viveva della propria arte, delle poche lire che guadagnava vendendo quadri, vagabondando con uno zaino logoro sulle spalle, che conteneva colori, fogli e tele, un cavalletto. L'arte era tutta la sua vita perché non poteva esimervisi. Era tutto ciò che sapeva fare. Vagabondare e osservare, riportare sulla tela o sul cartoncino delle sigarette quanto la propria visione aveva sintetizzato. La natura di artista di Kuperion è indiscutibile. Non è un semplice riproduttore del reale, come un paesaggista della domenica qualunque. La sua è una rappresentazione meditata, che coglie e reinterpreta, e ritraduce il reale in un linguaggio peculiare. In cui l'uso del colore la fa da padrone e definisce l'intuizione di Kuperion come elegante e ricercata. I limiti evidenti della sua arte, tuttavia, ne limitano anche la grandezza. E lasciano aperto un grande quesito, su quel che di tutta la sua intuizione sarebbe potuto essere, se solo avesse potuto formarsi. Magari nulla: a volte lo studio uccide l'istinto. Magari altro. Ma celebrare la sua vita e quindi la sua arte, o la sua arte e quindi la sua vita, per la Merano che lo conobbe e forse non riconobbe, è doveroso.