Gesellschaft | Potere e narrazione

L'Alexander Langer di Francesca Melandri

Le omissioni e le minimizzazioni di EVA DORME funzionali alla narrazione del potere?
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Foto: Luca Marcon

Il 3 settembre scorso chi scrive ha pubblicato su salto.bz la recensione del libro EVA DORME di Francesca Melandri, nella quale, citando a guisa di esempio un pezzo relativo al periodo tra il 1943 e il 1945, ha evidenziato come il romanzo risultasse «edulcorato di tutte quelle parti che contrasterebbero la narrativa storiografica provinciale ufficiale di un popolo sudtirolese rappresentato sempre e solo come vittima e mai come carnefice».
C’è un’altra parte del libro meritevole di menzione in tal senso ed è quella relativa alla figura di Alexander Langer così come viene tratteggiata in poche righe al capitolo intitolato «KM 960-1126»:

«edulcorato di tutte quelle parti che contrasterebbero la narrativa storiografica provinciale ufficiale di un popolo sudtirolese rappresentato sempre e solo come vittima e mai come carnefice»

[…] Nel 1981 Ulli e io andammo a chiuderci in gabbie di ferro su un ponte di Bolzano insieme a tanti altri giovani. Protestavamo contro il censimento etnico previsto dal nuovo Statuto di autonomia […]
I Verdi/Grüne avevano organizzato la manifestazione. Li guidava Alexander Langer, folletto visionario con denti da coniglio che per la nostra Heimat ormai autonoma, e sempre più ricca, sognava un’anima più grande, meno meschina, non un gretto apartheid di montagna. Tanti bravi sudtirolesi per questo lo odiavano, Magnago in testa. Su ognuna delle due gabbie di ferro [testo sottolineato NdA] sul ponte Talvera c’era un cartello. Su uno c’era scritto DEUTSCHE, sull’altro ITALIANI. Chi passava sul ponte era invitato a entrare in quella corrispondente alla sua etnia. Una volta chiusi dietro le sbarre di ferro, con quelli dell’altra gabbia non si poteva più comunicare. Proprio come i capi della SVP auspicavano che succedesse tra Daitsche e Walsche. […]

Su ognuna delle due gabbie di ferro sul ponte Talvera c’era un cartello. Su uno c’era scritto DEUTSCHE, sull’altro ITALIANI.

Già il raccontare l’episodio delle gabbie al ponte Talvera - replica delle gabbie esposte, e con ben più eco mediatica, davanti al palazzo Montecitorio a Roma – tacendo il fatto che, con buona pace del gruppo etnolinguistico ladino, fossero tre e non due costituisce di per sé un’omissione di particolare gravità. Ma è nella caricatura di Alexander Langer, ovvero la riduzione dell’uomo politico più dirompente ed innovativo che l’Alto Adige/Südtirol abbia mai avuto, in un «folletto visionario con denti da coniglio che per la nostra Heimat ormai autonoma, e sempre più ricca, sognava un’anima più grande, meno meschina, non un gretto apartheid di montagna» che emerge in tutta la sua chiarezza la minimizzazione di un tema centrale come quello rappresentato dallo stesso Alexander Langer in un suo intervento del 1986 rinvenibile sul sito della fondazione a suo nome.

Fin dalla fine del 1978 vedo arrivare, nel Sudtirolo, quella che chiameremo la "schedatura etnica": per far funzionare senza intoppi e senza zone d'ombra un sistema interamente basato sulla nitida delimitazione tra blocchi etnici, occorre la realizzazione di un catasto etnico al quale nessuno possa sfuggire. Inizialmente pochi credono che si arriverà a tanto, e interpretano in modo riduttivo e blando le norme già predisposte in quel senso, con tanto di timbro e firma della Repubblica Italiana. Così mettiamo in guardia contro le "nuove opzioni", contro l'imposizione delle "gabbie etniche". Mi pare di capire con assoluta lucidità che si tratta del più grave attentato alla democrazia, del più grave avvelenamento dei rapporti inter-etnici nel Sudtirolo dall'accordo Hitler-Mussolini e le "opzioni" dal 1939 in poi. Vedo quasi fisicamente l'accelerazione dei processi di separazione e di contrapposizione etnica che il cosiddetto "censimento linguistico" (con tanto di iscrizione nominativa obbligatoria in uno dei tre gruppi etnici riconosciuti) incoraggerà e renderà finalmente possibile senza pieghe o riserve. Sono angosciato per questa grande operazione di razzismo legale che le cosiddette forze democratiche in Italia (tutte, dal PCI al PLI) e in Austria consentono, minimizzano, appoggiano. Non capisco tanta cecità, tanta noncuranza, tanta confusione tra giuste esigenze di autonomia e di tutela delle minoranze e pericolosi intruppamenti etnici. Mi sembra quasi di toccare con mano un processo analogo a quello che ha portato al muro tra le due Germanie: dove prima la linea di demarcazione era appena tratteggiata sulle carte, e magari con qualche palo, ora c'è la "striscia della morte" e una vera "cortina di ferro" a dividere tra "noi" e "loro". I passi che hanno portato a questa separazione, singolarmente presi, non sembravano così terrificanti. Per un certo breve periodo l'effettuazione della schedatura etnica sembra in bilico. Nell'estate 1981 le resistenze, da noi indotte, si moltiplicano e raggiungono il cuore dei partiti, e qualche giornale. Ma poi, dopo tre giorni di dibattito parlamentare, nell'ottobre, prevale la ragion di stato e i partiti del sedicente "arco costituzionale" appoggiano tutti la soluzione voluta dalla "Volkspartei": divide et impera, a ognuno il suo recinto etnico coi relativi capi. Insieme a diverse migliaia di coraggiosi rifiuto di firmare il modulo in cui dovrei scegliere se aggregarmi legalmente al gruppo linguistico tedesco, italiano o ladino. Mia madre, che vive ancora e che aveva già rifiutato l'opzione nel 1939, non firma neanche lei. Come tanti altri obiettori etnici subisco presto una precisa conseguenza punitiva: il trasferimento della mia cattedra di storia e filosofia dal liceo di Roma al liceo classico di lingua tedesca di Bolzano, già regolarmente concesso, viene revocato dall'on. Falcucci, su pressione del partito di Magnago, per il quale non può essere considerato tirolese di madrelingua tedesca chi ha disertato la chiamata etnica obbligatoria del 1981. Mi viene in mente mio padre, ormai morto da anni, che dopo il suo licenziamento "razziale" nel 1938 venne informato burocraticamente dal dirigente provinciale dell'organizzazione fascista dei medici che non era possibile alcun altro suo impiego, neanche nell'ambito della Croce rossa o simili, e che comunque poteva sempre rivolgersi alle superiori autorità se credeva di aver subito un torto.

Il «licenziamento “razziale” nel 1938» a cui Langer si riferisce alla fine del suo intervento è quello subito da suo padre Arthur in quanto di «razza ebraica». Quello che Langer nel suo intervento non racconta, è che dell’antisemitismo sudtirolese “istituzionale” diviene vittima lui stesso come descritto nell’articolo «Alexander Langer di padre giudeo» pubblicato qui su salto.bz. Ciò che è invece obbligatorio dedurre dalle vicende loro occorse è il possesso tanto di una sensibilità quanto di una speciale capacità da parte di Langer di cogliere la gravità di un’azione come quella della cosiddetta “schedatura etnica” riguardo al suo richiamo implicito dell’ideologia nazista: che, non si deve dimenticare mai, ha nell’antisemitismo uno dei suoi pilastri fondativi.

Il «licenziamento “razziale” nel 1938» a cui Langer si riferisce alla fine del suo intervento è quello subito da suo padre Arthur in quanto di «razza ebraica». Quello che Langer nel suo intervento non racconta, è che dell’antisemitismo sudtirolese “istituzionale” diviene vittima lui stesso.

Il 5 settembre 2018 Francesca Melandri viene premiata con il «Grande Ordine di Merito» («Große Verdienstorden»), la massima onorificenza istituzionale della Provincia di Bolzano: un premio che viene assegnato a persone residenti al di fuori del territorio altoatesino che nei rispettivi ambiti di lavoro abbiano contribuito allo sviluppo dell’Alto Adige e che nel passato è stato conferito tra gli altri a Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Claudio Abbado e Giulio Andreotti. L’unica personalità pubblica che solleva specifiche critiche riguardo a questa premiazione è il giornalista e politico Florian Kronbichler attraverso un pezzo intitolato «Francesca Melandri und das Romano-Viola-Syndrom» nel quale stigmatizza il romanzo imputandogli una sorta di acquiescenza nei confronti della SVP in analogia a quelle dichiarazioni di ammirazione da parte di italiani verso scelte e comportamenti del potere politico sudtirolese che gli altoatesini derubricano subitaneamente come servilismo.
Chi scrive è debitore ad un’altra persona della formulazione di una ipotesi in grado di capovolgere completamente l’approccio al libro di Francesca Melandri: e se EVA DORME fosse consapevolmente un'opera letteraria che usa la leggerezza del romanzo per veicolare una lettura di parte della storia?

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