Gesellschaft | L'intervista

Contro il lato oscuro del web

Parla l’esperto di data journalism Jacopo Ottaviani, che sarà all’Unibz il 5 ottobre: “Il giornalismo è destinato a cambiare radicalmente. Vi spiego perché”.
Jacopo Ottaviani
Foto: Jacopo Ottaviani

In Italia il data journalism è una “confessione” che conta ancora pochi fedeli, nonostante il suo certificato apporto alla completezza dell’informazione e nell’opera di contrasto alla propagazione virulenta delle notizie false. Un fulgido esempio di giornalista dei dati è Jacopo Ottaviani (i suoi lavori sono comparsi su Internazionale, The Guardian, Al Jazeera International, Foreign Policy, Der Spiegel, El País, De Correspondent, fra gli altri), che parteciperà, in qualità di relatore, all’evento sul visual journalism organizzato dall’Università di Bolzano per il 5 e 6 ottobre.

Ottaviani illustrerà nello specifico alcuni progetti di data journalism (e relative metodologie), ai quali ha lavorato negli ultimi 5 anni, compresi alcuni web documentary, su argomenti come i Millennium goals delle Nazioni Unite con focus su difesa dell’ambiente, ad esempio, ma anche accesso all’acqua, sanità, istruzione. Molti di questi progetti sono transnazionali, costruiti cioè da team di persone - giornalisti, ricercatori, designer, programmatori - che provengono da paesi diversi.

 


salto.bz: Ottaviani, partiamo da una domanda obbligatoria: quanto è importante oggi uno strumento come il data journalism per documentare la verità in un’epoca assediata, osiamo dire, dal fenomeno delle fake news?

Jacopo Ottaviani: È fondamentale affrontare l’informazione nel modo più scientifico possibile, e quindi produrre informazione che sia comprensibile ma allo stesso tempo solida, legata ai fatti e non alle manipolazioni o alle opinioni casuali.

Come avviene il processo di ricerca dei dati?

Molto spesso si parte da Google. C'è un tool chiamato Google advanced search che permette di scavare all’interno di archivi, siti internet, alla ricerca di file Excel, PDF, report, tutti elementi molto utili per il data journalism. Se Google non basta si può provare con i siti istituzionali come quello dell’Unione Europea, Eurostat; oppure World Bank, la Banca mondiale; la FAO, le stesse Nazioni Unite che sul loro sito hanno moltissimi dati. Insomma la lista di portali open data che possono essere utilizzati per incrociare le informazioni e quindi produrre data journalism è lunghissima. Sta poi all’esperienza del giornalista riuscire a fare opera di discernimento, perché bisogna avere un occhio critico sui dati.

Le inchieste giornalistiche basate sui dati sono ancora un terreno poco esplorato in Italia, a suo parere?

Non si fanno ancora abbastanza inchieste di questo genere, secondo me. Sono pochissimi i giornali italiani che hanno realmente un data desk, una sezione di dati vera e propria. Quello che accade è che spesso si realizzano alcuni progetti elaborati da collaboratori esterni e si pubblicano una volta ogni tanto, ma non c’è generalmente una produzione continuativa in questo senso.

È un problema di risorse, mancanza di competenza o di resistenza culturale al cambiamento?

Credo si tratti di una combinazione di questi elementi. È certamente un problema di resistenza culturale e anche di turnover, si preferisce infatti tenere il vecchio redattore, che per inciso non costa nemmeno poco contrattualmente parlando, piuttosto che sostituirlo con un giovane. Nel frattempo i soldi diminuiscono perché il numero di copie dei giornali cartacei venduti cala e i modelli di business del digitale non sono ancora sufficientemente competitivi.

Bisogna abbracciare l’innovazione, perché il momento che stiamo vivendo, in termini di digitalizzazione del giornalismo, è irreversibile, non si può pensare di fermare questo inevitabile cambiamento

In quale paese il data journalism ha raggiunto il suo “massimo splendore”?

Negli Stati Uniti, senza dubbio. Il New York Times, ProPublica, Washington Post, The Marshall project, Texas Tribune, sono moltissimi i progetti che usano i dati, che sono ormai una delle fonti primarie utilizzate. In realtà fare data journalism in America non è più nulla di speciale, non esiste più nemmeno un giornale locale che non abbia un data desk.

C'è dunque molta strada da fare ancora, in Italia. Nel nostro piccolo, in Alto Adige, un ottimo successo ha avuto il progetto multimediale sulla comunità cinese nel capoluogo, la “Repubblica popolare di Bolzano”. Lo conosce?

Sì, penso che abbia un design fenomenale. Devo dire che le iniziative nate a Bolzano, e dentro l’Unibz in particolare, sono sempre state di altissima qualità, e trovo che un progetto come quello della Repubblica popolare di Bolzano possa competere con gli standard di Inghilterra, Stati Uniti, Scandinavia, paesi dove c’è molta sensibilità verso il design.

Consigli pratici per i giornali locali che volessero tentare la via del data journalism?

Direi banalmente mettersi a farlo, senza lasciarsi intimorire dalla tecnologia. E poi abbracciare l’innovazione, perché il momento che stiamo vivendo, in termini di digitalizzazione del giornalismo, è irreversibile, non si può pensare di fermare questo inevitabile cambiamento. E ciò vuol dire anche cercare di assumere più giovani, ma non chi ha una formazione tradizionale, bensì quelli che provengono da altri settori. Faccio un esempio: pensiamo al Washington Post, comprato dal patron di Amazon, Jeff Bezos, che è stato risollevato completamente perché sono stati integrati moltissimi ingegneri, informatici, statistici, persone con background completamente diversi tra loro che però lavorano per una causa comune.

Una volta certe affermazioni, certe chiacchiere, nascevano e morivano al bar, il guaio è che ora circolano sugli schermi di tutto il mondo.

E a livello nazionale ha seguito il caso Casalino? Il governo annuncia l’intenzione di voler abolire l’Ordine dei giornalisti, lei che ne pensa?

In tutta onestà credo che se si riuscisse ad abolirlo sarebbe cosa buona, peraltro siamo uno dei pochissimi paesi in cui esiste l’Ordine dei giornalisti. Ritengo che la minaccia arrivi piuttosto dalla diffusione di informazioni false, di teorie del complotto, di rumors, che poi attraverso i social network vanno a rinforzare certi stereotipi e a fomentare i più bassi istinti dell’umanità. E l’attuale governo invece di combattere questa tendenza con i fatti la cavalca.

Una previsione: quale sarà lo stato di salute del giornalismo fra 10 anni?

Ci sarà un avanzamento progressivo della cultura digitale. Il cambiamento nel giornalismo, che sarà radicale, andrebbe però governato. Occorre ad esempio pensare a corsi universitari che siano al passo con i tempi, sempre più internazionali, sempre più collegati con gli altri poli europei. La carta stampata continuerà a esistere ma come prodotto di nicchia, quasi un oggetto di culto, come lo è Cartography, ad esempio, la rivista semestrale di viaggi con cui collaboro con piacere. Scompariranno i quotidiani come li abbiamo conosciuti finora e anzi, per questo credo basteranno anche cinque anni. Ci sarà una presenza più forte dei social media e, ben inteso, questo vuol dire che c’è un fortissimo bisogno di giornalismo, è importante per esempio che ci sia sempre più fact checking. E poi va rivisto il modo in cui sono strutturate le filter bubble, perché questo è un problema gigantesco.

Cioè?

Vede, ognuno di noi è esposto al tipo di informazione che già ritiene essere valida, ed etichettiamo tutto il resto come immondizia, specularmente però lo fanno anche gli altri. Cosa significa: le persone che mettono in dubbio l’efficacia dei vaccini, per esempio, pensano che tutti gli altri siano stati sottoposti a un lavaggio del cervello da parte delle grandi industrie farmaceutiche, si circondano di chi la pensa allo stesso modo, condividono informazioni false che vanno a irrobustire i loro preconcetti. Rompere queste bolle è necessario e per farlo bisogna puntare sulla cultura, la scuola pubblica, l’integrazione. Solitamente infatti coloro che diffondono e alimentano le bufale sui social sono persone con un basso livello di istruzione e che finalmente hanno modo di far sentire la propria voce su Facebook. Una volta erano individui marginalizzati, e certe affermazioni, certe chiacchiere, nascevano e morivano al bar, il guaio è che ora circolano sugli schermi di tutto il mondo.