L'abbraccio mancato
Ognuno ricorda la domanda che veniva sempre fatta a Massimo Troisi durante il suo viaggio al nord, nel film “Ricomincio da tre”: “Ah, sei di Napoli... immigrato, eh?”. E Troisi che replicava: “Ma perché, se sono napoletano devo essere per forza un immigrato?”. I protagonisti del libro di Sandro Abruzzese “Mezzogiorno padano” (manifestolibri) – presentato ieri dall'autore irpino, residente a Ferrara, insieme a Giovanni Accardo, alla libreria Mardi Gras di Bolzano – non possono permettersi di fare altrettanto. Chi viene dal sud, qui, è innegabilmente un immigrato, anche se a vario titolo e con diverse motivazioni di partenza. Immigrato e immigrati per finire dove? Magari a Domodossola, “D come Domodossola. Non riuscivo a ricordare dove precisamente fosse. Allora ho controllato, è in Piemonte, abbastanza vicino alla Lombardia”. Diventando migranti, e quindi immigrati, occorre imparare la difficile arte del collocamento spaziale, ancor prima che esistenziale. E alla fine, più probabilmente, si resta impigliati in un lungo, lunghissimo “tra” (tra la partenza e la destinazione), esperti di attraversamenti mai definitivi. “Sono contento di essere qui a Bolzano” - dice Abruzzese - “perché è una città di confine, come Trieste, e nelle città di confine accadono sempre cose interessanti”.
La questione meridionale è la questione nazionale per eccellenza
Confusione esistenziale, impossibilità di collocarsi, soffrirne, eppure ricavarne anche uno stimolo a cercare delle risposte a domande stringenti, persino ineludibili, che però chi è “autoctono”, cioè in teoria perfettamente inserito, non ha la possibilità (ma soprattutto la volontà) di farsi. Abruzzese comincia a cercare quelle risposte, ma subito si perde in mille divagazioni. Il destino dei suoi personaggi è un piano di appoggio per dirci che in realtà “si tratta di politica”, e ripercorre le analisi “meridionalistiche” (a cominciare da quella, celebre, di Gaetano Salvemini) che hanno illustrato l'immagine di un paese spezzato, asimmetrico, ma nel quale le parti divise si somigliano molto di più di quanto non si potrebbe supporre: perché “la questione meridionale è in realtà una questione, forse la questione nazionale per eccellenza”, e solo affrontandola in un quadro d'insieme più ampio, un puzzle composto dalle tessere di chi parte e chi resta, potrebbe essere, se non risolta, almeno affrontata per quel che è.
Ognuno nasce sulla stessa terra degli altri e per ogni cosa ci vuole il lavoro, il petrolio, l'energia, il denaro
“La terra è una sola. Ognuno nasce sulla stessa terra degli altri e per ogni cosa ci vuole il lavoro, il petrolio, l'energia, il denaro”. Qui, per esempio, è Beniamino il barbiere a parlare. Barbiere apolide, fuggito per non fare la guerra e “morto senza alcuna patria, senza bandiere, senza rimorsi, poco prima di compiere i suoi ottanta anni”. Sfoglio il libro, Abruzzese intanto parla di medici che emigrano per poter curare chi si è a sua volta spostato per ricevere quelle cure. È il senso di uno spreco, di una emorragia, che svuota i paesi del sud (e certo non solo di medici e pazienti e barbieri) e allarga il “divario”, scavando una voragine incolmabile, che inghiotte tutto, anche la speranza, anche la nostalgia canaglia, sentimenti condensati in vittimismo, nel discorso che “tanto le cose da noi non possono cambiare”. Rifiutando il vittimismo, Abruzzese rigetta anche la teoria della differenza antropologica, dei mali endemici, e azzarda una soluzione: “Ci vorrebbero degli investimenti, grandi investimenti, perché bisogna creare lavoro. Solo con il lavoro si risolvono i problemi e le persone non sarebbero costrette a partire. O meglio: partirebbero solo se avessero la voglia di farlo, com'è giusto che sia, com'è il diritto di tutti, non perché obbligati e schiacciati dalla mancanza di alternative”.
Forse solo abbracciandosi si risolvono le cose
“Tutti ci parlano di economia, delle necessità del presente, ma nessuno ci parla del futuro e di quali scelte potremmo fare per migliorare la nostra condizione. Giù il sistema è drogato dalla disoccupazione e il destino delle persone dipende dalla rete di relazioni, dalle amicizie. Senza scomodare per forza la criminalità organizzata, che pure esiste, c'è soprattutto un potere politico-clientelare granitico, che comanda totalmemte”. Sono cose note, anche se appaiono come gridate dietro un vetro spesso e insonorizzato. La scrittura serve a riaprire le ferite, il sangue scorre, le parole però s'inceppano. Perciò bisogna provare a scriverle. “Per chi non ha più patria – ha scritto Adorno, citato da Abruzzese rivolgendo evidentemente l'osservazione a se stesso – anche e proprio lo scrivere può diventare una sorta di abitazione”. Dal pubblico si alza un signore attempato: “So di andare controcorrente, sono di destra e pure xenofobo. Sono xenofobo perché ho paura. La mia domanda è semplice: dovremmo aiutarci tra italiani, perché dopo tutti questi anni si parla ancora di una questione meridionale? Abbiamo bisogno di mettere al primo posto gli italiani”. Abruzzese non si scompone, pensa a cosa potrebbe rispondere (“perché non possiamo alzare le spalle davanti a tale malessere, non possiamo far vincere il disprezzo, bisogna provare a capire”) e poi smarrisce di nuovo il filo con il quale, impresa ardua, si potrebbe provare a legare punti di vista così distanti e laceranti. Dopo la serata, a cena, mi confiderà: “Avrei voluto abbracciarlo, forse solo abbracciandosi si risolvono le cose”.
Occorre rifondare un diverso senso di comunità
Apro ancora il libro e leggo le ultime righe della bella prefazione di Vito Teti, quasi una lettera all'autore scritta dall'antropologo che ha cercato nei luoghi abbandonati del sud la densità di una memoria incancellabile e il difficile percorso per rianimarli: “Le ferite della terra saranno più evidenti, ma la luce del sole che asciuga i poggi e i paesi indicherà possibili sguardi, altre vie, lungo le quali può accadere che si incontrino e dialoghino per camminare assieme persone che non si sono mai conosciute”. Mai conosciute e mai capite, verrebbe da aggiungere, perché, pur sfiorandoci continuamente, è come se restassimo anche sempre più soli. Sì, forse ci vorrebbe davvero un nuovo modo di abbracciarsi, almeno per rifondare quel senso diverso di comunità sulla quale, invece, da troppo tempo diffondiamo uno stonato e funereo canto.