“La vostra autonomia ci può ispirare”
Lo scorso aprile il Presidente della Provincia Luis Durnwalder guidò una delegazione locale in Palestina. Lo scopo: dare continuità a un’iniziativa della Lega delle Cooperative imbastita insieme a Janiki Cingoli, direttore della fondazione CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente), già in grado di portare a Bolzano due delegazioni israelo/palestinesi. Un progetto che continua, come testimonia la visita di Yousef T. Jabareen, direttore generale dell’Arab Center For Law and Policy DIRASAT. Salto.bz gli ha rivolto alcune domande.
Dott. Jabareen, ci può parlare brevemente del contesto dal quale lei proviene?
Yousef T. Jabareen: Vengo da Nazareth. Una città popolata in grande prevalenza da arabi palestinesi, cioè il gruppo minoritario nel contesto israeliano. Si tratta comunque della comunità originaria della regione, che solo in seguito agli eventi del 1948 fu costretta a diventare minoranza in senso linguistico, religioso e culturale.
Lei conosce l’ebraico?
La nostra comunità frequenta la scuola araba, siamo tuttavia costretti a imparare l'ebraico per avere a che fare con le istituzioni. L’ebraico è l’unica lingua ufficiale di Israele e perciò è indispensabile per affermarsi nella società. La popolazione di lingua ebraica, invece, generalmente non conosce l'arabo.
Ma almeno è garantito il diritto di usufruire di un’istruzione nella vostra madrelingua…
Sì, ma il sistema scolastico è controllato dal Governo. Ciò significa che, nonostante la libertà di utilizzare l’arabo, i contenuti, i programmi e tutto quello che serve per fare una vera carriera è determinato dalle istituzioni israeliane. Non abbiamo così la possibilità di coltivare veramente la nostra cultura e le nostre tradizioni. Per fare un esempio: è come se a una ipotetica minoranza inglese residente in un luogo dove la maggioranza parla un’altra lingua venisse impedito di studiare Shakespeare. O comunque fosse inutile farlo.
Dove lei vive la relazione tra le due culture produce ancora violenza, ed eventualmente in che forma si manifesta?
La violenza, intesa in senso fisico, non è generalmente presente nella vita quotidiana, anche se talvolta può erompere. Nel 2000, per esempio, la nostra comunità diede vita a manifestazioni di protesta che furono represse dalle forze dell’ordine in modo molto violento (ci furono 14 morti). La violenza è piuttosto di tipo simbolico, porta i tratti della dominazione esercitata dalla maggioranza. Le faccio due esempi. Quando, per venire a Bolzano, mi sono diretto verso l'aeroporto, ho visto molta polizia in giro e unità speciali in azione. Mi sono chiesto se non fosse successo qualcosa di grave. Poi ho saputo che stavano demolendo la casa di un palestinese, di una famiglia araba, che era lì da 45 anni, perché al Governo non andava più bene che ci fossero case arabe in quella zona. Inoltre a me accade spesso di essere controllato in modo molto severo. Basta che la polizia veda il mio indirizzo sul passaporto, già il fatto che provengo da una città a maggioranza araba è sufficiente per innalzare una barriera di sospetto.
Lei però appartiene a un'organizzazione che cerca di abbassare questa soglia di sospetto, di gettare ponti tra cittadini arabi e israeliani...
Cerchiamo di sviluppare relazioni con le istituzioni per promuovere la collaborazione e il riconoscimento dei nostri diritti. Si tratta di un compito molto difficile, ma cerchiamo di far presenti le nostre istanze in modo professionale.
Quali sono i vostri obiettivi principali?
Prima di tutto promuovere l’uguaglianza e veder riconosciuta la nostra cultura. Vorremmo che l'arabo diventasse lingua ufficiale, che Israele accettasse insomma di essere un Paese bilingue. Inoltre vorremmo controllare il nostro sistema educativo ed estendere la nostra partecipazione ai processi decisionali. Anche se abbiamo rappresentanti in Parlamento, essi non hanno la possibilità di entrare nel Governo, siamo quindi sempre all'opposizione. In questo modo non abbiamo un vero potere.
In che modo dovrebbe configurarsi, a suo avviso, la soluzione della questione israelo-palestinese?
L’unico modo per avere una soluzione pacifica è quello di favorire la creazione di due Stati nella parte occidentale della Palestina. Allo Stato di Israele si affiancherebbe così uno Stato palestinese entro i confini dell’attuale Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Si tratterebbe insomma di ripristinare i confini del 1967. Del resto si tratta di una soluzione caldeggiata anche dalla comunità internazionale.
Certificare una divisione che richiama l’ideale della “purezza”.
No, noi non siamo affatto per la “purezza”, continueremmo per esempio a vivere in Israele, come minoranza. Vorremmo però che sparissero gli insediamenti nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, perché sono illegali.
In passato i Paesi arabi confinanti hanno rappresentato un ostacolo al processo di pacificazione, negando per esempio il diritto all’esistenza dello Stato di Israele. Come giudica questo fatto?
Negli ultimi anni questi Paesi hanno mostrato di voler riconoscere l'esistenza di Israele. Anche loro sono dunque favorevoli alla soluzione dei due Stati, ma sfortunatamente finora non hanno mai incontrato la disponibilità di Israele.
Lei ha già visitato due volte il Sudtirolo, quindi si sarà fatto certamente un’idea della nostra autonomia. Quali sono le cose che l’hanno più colpita?
Noi desideriamo il cambiamento. La cosa che noto è proprio questa: siete riusciti a convertire una situazione di partenza negativa in un’esperienza vantaggiosa, d’indubbio successo. E vantaggiosa per tutti. Sia in senso economico che in senso culturale. Il bilinguismo, l’autonomia in campo formativo e una forte rappresentanza politica per le minoranze sono scopi che anche noi ci prefiggiamo. Da questo punto di vista siete certamente una grande fonte di ispirazione.