Gesellschaft | L'intervista

“Siamo ancora spaventosamente indietro”

Italo Vignoli, fondatore del Progetto LibreOffice, su democrazia digitale, elezioni online, gap educativi. Oggi, alle 17.30, l’incontro alla Kolpinghaus di Bolzano.

Si parlerà di democrazia e sostenibilità digitale oggi, 29 luglio, alle ore 17.30 alla Kolpinghaus di Bolzano in un incontro organizzato dai Verdi dal titolo “Il cloud: mito, realtà e autonomia”. Il dibattito, moderato dalla consigliera provinciale Brigitte Foppa, vedrà protagonista Italo Vignoli, fondatore del Progetto LibreOffice, presidente onorario di Associazione LibreItalia e director di Open Source Initiative (OSI), già noto ai lettori di salto per la sua presa di posizione dopo il dietrofront della Provincia sull’uso del software libero nella pubblica amministrazione. Parteciperanno alla discussione di oggi anche Markus Mittelberger (OwnCloud presso il Consorzio dei Comuni), Corinna Lorenzi (co-portavoce Verdi di Bolzano), e Anton Auer (gruppo Digital sustainability).


Vignoli, cosa si intende per democrazia digitale?
La trasposizione digitale della democrazia, ovvero un accesso trasparente alle informazioni da parte di qualsiasi individuo senza alcun tipo di limitazione, dove per limitazione si intende anche l’acquisto di un software. Quello che noi proponiamo, LibreOffice, è gratuito per il singolo utente e ciò permette di creare e fruire contenuti in modo democratico. Se poi si vuole acquistare un software si è liberi di farlo, ma diventa una propria scelta, come nella migliore concezione democratica.

Quali sono, nello specifico, le potenzialità e i limiti della democrazia digitale?
I limiti sono quelli della democrazia stessa, il rischio è che questa democrazia, mal gestita, possa dar luogo a delle prevaricazioni. Il senso civico dovrebbe essere caratteristica imprescindibile dell’individuo. Per fare un esempio Monaco utilizza solo software libero sui computer di tutta l’amministrazione pubblica, e il sistema funziona. LibreOffice si serve di formati standard (aggiornati e pubblicati in modo che siano facilmente riproducibili) che vengono utilizzati da oltre 100 programmi, in questo modo lo scambio delle informazioni diventa trasparente e perenne, con tutte le limitazioni del caso, naturalmente. Il vantaggio è che i formati standard saranno sempre ricostruibili. Non è un caso, del resto, che le grandi biblioteche in Francia, Inghilterra e Stati Uniti stanno pensando di impostare la migrazione verso questo tipo di formato.

Perché il formato proprietario rischia di non essere più fruibile.
E quindi non democratico. Un palliativo potrebbe essere il pdf ma non consente di fare l’editing e quindi non permette il riuso dei documenti. Accade ad esempio che un autore crei una ricerca scientifica anche perché questa possa essere riutilizzata anche all’interno di altre ricerche, naturalmente attribuendo la paternità all’autore originario, è importante che i dati siano in un formato standard altrimenti sarebbero bloccati dall’applicazione che deve comunque essere acquistata e aggiornata. Con il formato standard questo non succede o meglio il rischio è ridotto a percentuali minime e gestibili.

Si parla spesso della democrazia digitale come di un rimedio per correggere automaticamente tutti i i difetti della democrazia rappresentativa, è così?
Diciamo che a primeggiare dovrebbe essere il buon senso. Il problema è che siamo tutti carenti nell’ambito dell’educazione digitale. Mi capita spesso di parlare di questo argomento nelle scuole e mi rendo conto che i genitori e gli insegnanti sono poco informati al riguardo.

E i giovani?
Sono quelli che ne sanno di più ma solo perché si sono auto-formati data la loro facilità di accesso alle tecnologie, ma spesso lo hanno fatto in modo sbagliato, mi riferisco ad esempio a un ragazzo che pubblica indiscriminatamente le sue foto su Facebook non essendo cosciente del fatto che quelle foto diventano da quel momento in poi anche di proprietà del social network. La democrazia digitale è bellissima e importante ma ci vuole molta strada prima di considerare concluso il percorso.

Parliamo di elezioni digitali, è un’ipotesi fattibile quella di rendere disponibile il voto online entro il 2020?
Tecnologicamente è fattibile. Anche qui c’è necessità di educare l'utente, il voto online, per definizione, si può correggere perché si tratta di un file digitale. Se in teoria avessi a disposizione 72 ore per votare e ogni 7 ore cambiassi il mio voto 7 volte sarebbe valido solo l’ultimo inserimento. In un cittadino normale che non ha la dovuta preparazione tecnologica tutto ciò può creare confusione e far sorgere domande del tipo: “Com’è possibile che si possa cambiare il proprio voto?”. Purtroppo, e questa è un’opinione del tutto personale, chi in Italia dovrebbe occuparsi di questo settore è totalmente impreparato e incompetente, non siamo in buone mani per ciò che riguarda le elezioni digitali. Chi non ha mai messo le mani su una tastiera, penso ad esempio alle vecchie generazioni, si troverebbe del tutto sprovvisto delle nozioni necessarie per utilizzare questo sistema.

Cosa suggerisce, allora?
Eviterei atteggiamenti tipo Movimento 5 stelle relativamente a una democrazia digitale diffusa dove si vota con una email perché la traccia è fondamentale, il voto esprime una responsabilità e occorre poter risalire a questo voto come accade per quello digitale. C’è una grande responsabilità per chi crea i meccanismi che devono essere secretati sul serio, perché se utilizzo il token (chiave digitale, ndr) per il voto non posso poi inviarlo a chicchessia per e-mail o pubblicarlo su Facebook. Ci manca uno zoccolo educativo e in questo senso siamo spaventosamente indietro.

Ma ci sono esempi in Europa o in Italia dove il sistema della democrazia digitale funziona?
Ci sono paesi che hanno iniziato ad affrontare i problemi, l’Inghilterra, ad esempio, ha deciso di utilizzare formati standard. Ci vorranno vent’anni per la standardizzazione ma se mai iniziamo mai ne vedremo i risultati. Anche la Francia ha iniziato questo processo, seguita dall’Olanda e dalla Svezia. Caso curioso è invece quello di Taiwan che ha tradotto e implementato il lavoro fatto dagli inglesi. Va detto che il governo britannico ha un budget per l’information tecnology di 16 miliardi di sterline all’anno e ha calcolato che il problema dei formati non standard genera "diseconomie" pari a un 3/5% del totale, parliamo cioè di 500-800 milioni di sterline, cifre astronomiche che potrebbero essere risparmiate. Il problema delle elezioni online, tuttavia, in Inghilterra ancora non è stato affrontato. Abbiamo duecento anni di democrazia da trasformare in democrazia digitale, non è una cosa banale né rapida.

L’Alto Adige potrebbe essere una “piattaforma” fertile in questo senso?
Parliamo di democrazia e dobbiamo stare attenti a non creare vincoli che riguardino ad esempio la lingua, penso appunto all'Alto Adige, o alla religione. In questo momento la tecnologia è arrivata a un punto tale che vincoli di questo tipo sono ormai stati superati, occorre però una dose di buona volontà da parte di tutti.

Su quali basi culturali poggia il concetto di sostenibilità digitale?
La cultura è fatta di condivisione della conoscenza, Open source diventa uno strumento culturale, in cui è intrinseca proprio questa condivisione delle informazioni. C’è trasparenza perché si impara e non si è gelosi dei propri contenuti, la comunità del software libero insegna molto perché ci si confronta e si discute. Questa evoluzione culturale è importante ed è un atteggiamento che dobbiamo riconquistare.