Umwelt | Grandi carnivori

Paralisi gestionale

Il docente di zoologia Marco Apollonio è uno dei massimi esperti sulla presenza del lupo in tutto il territorio italiano: "Non dobbiamo fare le stesse cose ovunque". L'esperto racconta a Mauro Fattor cosa ha funzionato in Veneto.
Lupo
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  • (*) Migliorare la coesistenza tra lupo e attività umane. E dunque: studiare di più, capire di più, sperimentare di più. Forse anche osare di più. Avere il coraggio di battere strade nuove. Certo, il lupo è animale “politico” per eccellenza, ha una dimensione pubblica, fa irruzione nel dibattito pubblico in un clima surriscaldato e allergico a qualsiasi complessità. Purtroppo. Perché le novità e le proposte, anche sul piano gestionale, non mancano. Ne abbiamo parlato con Marco Apollonio, docente di Zoologia e Wildlife Management presso l’Università di Sassari, che in questi anni ha portato avanti con il suo gruppo di lavoro alcune ricerche tra le più innovative a livello nazionale.

    (*) Partiamo da vicino e poi allarghiamo gli orizzonti. Il 18 settembre 2018 avevate firmato con la Regione Veneto un protocollo per la gestione proattiva del lupo, soprattutto sulle Prealpi Venete, al confine col Trentino, e poi?

    Marco Apollonio: È stato rinnovato per un anno e ha interessato Prealpi Venete, Altopiano di Asiago, Monte Grappa e Valle del Piave. Abbiamo risolto anche una serie di problemi con lupi feriti e recuperati. L’abbiamo fatto con tre animali, due dei quali sono sopravvissuti al rilascio per un lungo periodo fornendo una serie di dati molto interessanti perché una lupa si è spostata in pianura tra Verona e il Mincio, mentre un’altra è partita dal Nevegal, nel Bellunese, ed è arrivata a Salorno, dove poi si è installata su un territorio che arrivava fino in Val di Fassa.

    Quanti animali avete complessivamente radiocollarato in questi anni?

    In totale sono 18, sparsi tra Veneto, Toscana e Lazio, e quindi tra Alpi e Appennini. In Veneto sono 10, di cui 7 lupi catturati e 3 feriti, curati e rilasciati. Un lavoro è ancora in atto con il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi. Poi, Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi con tre lupi radiocollarati in tre branchi diversi. Ancora: Tenuta di San Rossore, vicino a Pisa. Lì abbiamo catturato 4 lupi, di cui 3 appartenenti allo stesso branco, tra cui il fondatore del primo branco che si è riprodotto a San Rossore, nel 2021, e due suoi figli. Il quarto era invece un lupo solitario che si aggirava in zona e che è adesso si è stanziato sulle Apuane. Poi ci spostiamo ancora e andiamo alla Tenuta Presidenziale di Castelporziano, vicino a Roma, dove abbiamo radiocollarato un lupo e dove abbiamo in programma di procedere almeno con altre 3 catture di un branco che si è stanziato abbastanza recentemente, nel 2022. Sono situazioni molto diverse tra loro. Sulle Foreste Casentinesi il lupo è una presenza consolidata da decenni, con la prima riproduzione osservata sul versante toscano che risale addirittura al 1992. Nelle Prealpi Venete, la prima riproduzione in Lessinia è del 2013, seguono Asiago nel 2017 e il Grappa nel 2018.

  • Marco Apollonio: è docente di zoologia a Sassari Foto: Marco Apollonio

    Perché insistere sulle date?

    Perché sono importanti. Tutto è importante, col lupo. I collari ci forniscono dati preziosi da areali “storici” e da zone di neocolonizzazione. Come dicevo, sono situazioni diverse, da tutti i punti di vista; ambienti, densità di lupi, densità di prede, milieu culturale e sociale, tipologia di attività antropiche, presenza agropastorale. Questa eterogeneità è il vero punto di forza del lavoro che abbiamo fatto fino ad oggi sul lupo.

    Con quali risultati?

    Ci siamo resi ad di quante cose diverse possa fare la stessa specie inserita in contesti ambientali, sociali, economici differenti.

    Questo è un po’ il ruolino di marcia che riassume anni di lavoro, ma quanti sono gli animali che seguite ancora oggi?

    Uno a Castelporziano, 2 a San Rossore e 1 sulle Apuane, 1 nelle Foreste Casentinesi e 1 nelle Dolomiti Bellunesi.

    Grazie al lavoro di questi anni abbiamo potuto documentare, dati alla mano, come il lupo possa passare dal predare solo ed esclusivamente prede selvatiche a vivere nutrendosi di nutrie e rifiuti

    Oggi il radiocollare è legato all’idea di un investimento in prevenzione e sicurezza. Per l’orso è così. Per il lupo non ancora, ma le cose mutano velocemente. Nel suo caso invece si parla di radiocollari e ricerca sul campo. Ne vale la pena? E con quali ricadute pratiche?

    Certo, ne vale la pena e per una montagna di ragioni. Prendiamo, per esempio, l’ecologia alimentare del lupo, che è un po’ l’aspetto critico su cui converge buona parte del dibattito sulla sua presenza e sul suo ritorno. Grazie al lavoro di questi anni abbiamo potuto documentare, dati alla mano, come il lupo possa passare dal predare solo ed esclusivamente prede selvatiche a vivere nutrendosi al cento per cento di nutrie e rifiuti, soprattutto in forma di scarti alimentari, perché la lupa che viveva in Pianura Padana a sud di Verona, in ambienti devastati dal punto di vista ambientale, tra capannoni, stalloni e strade, passava il giorno immobile in boschetti minuscoli per poi vagare la notte in cerca del “menu” che ho citato. Per la precisione si era scelta una polveriera abbandonata come base e da lì si muoveva facendo il giro delle stalle e mangiando placente, vitelli morti e gettati magari sui letamai. Viveva di rifiuti e sfruttava i depositi di scarti alimentari, raramente legali, di ristoranti, mense ed altro, poi ogni tanto si concedeva una nutria catturata lungo un canale. Contemporaneamente i lupi di San Rossore, che vivono in un contesto straordinariamente ricco di prede selvatiche con densità primaverili di daino che in epoca preparto toccano i 50 animali per 100 ettari, con punte che arrivano a 70-80 o più nel periodo estivo, in 4 anni di telemetria non hanno mai toccato un animale domestico. Sottolineo che siamo in area periurbana, a 4 km esatti dalla Torre di Pisa, e che all’interno e all’esterno della Tenuta ci sono allevamenti di cavalli, allevamenti di bovini e maneggi che vengono regolarmente attraversati quando il branco si sposta.

    Da Verona a San Rossore sembrano animali diversi in mondi diversi.

    Effettivamente è così. Uso sistematico di carcasse e predazioni sono due mondi diversi; animali domestici e prede selvatiche, anche lì, mondi altrettanto diversi. Naturalmente la gamma dei grigi tra questi due estremi è varia e mutevole. E le situazioni cambiano. I lupi del Grappa d’inverno si comportano come i lupi di San Rossore, mentre d’estate “shiftano” sul domestico, che diventa la preda principale. Ancora una volta, però, attenzione perché non è una regola generale. Per esempio, dentro il Parco delle Dolomiti Bellunesi questo accade molto più di rado e con impatti molto meno importanti, perché col fatto che la densità di animali da allevamento è più bassa e che i lupi sono collocati spazialmente in luoghi un po’ diversi, il conflitto è inferiore. In un’area poi dove ci era stato chiesto di lavorare, in Alpago, la situazione è ancora diversa. Le greggi pascolano alle porte dei paesi e i lupi, di conseguenza, arrivano vicino alle case. Insomma, ci sono un’infinità di situazioni diverse e mettere il radiocollare a un animale fornisce dati preziosissimi sull’uso dello spazio e sull’uso stagionale delle risorse trofiche, in definitiva sull’ecologia alimentare della specie. E le sorprese non finiscono qui.

    Che altro?

    Prendiamo gli home-range dei lupi delle Foreste Casentinesi. Bene, 2 su 3 sono di dimensioni molto ridotte, mai riportate in Europa. Lì abbiamo monitorato 3 branchi diversi, contigui, 2 dei quali formati da una coppia con cuccioli, con territori di 3000 ettari. Questo spiega anche come mai un’area protetta relativamente piccola, parliamo di 40mila ettari, abbia 13 branchi al suo interno.

  • Foto: jggrz

    Ma in quel contesto i branchi sono tutti così piccoli, cioè mononucleari, senza helper?

    No, il terzo branco su cui lavoriamo è più grande, ed essendo più grande inevitabilmente ha anche una predazione più rintracciabile, cosa che non accadeva coi primi due branchi. Con questi ultimi abbiamo avuto una difficoltà enorme a trovare carcasse o resti di pasto, per cui o predavano animali molto piccoli oppure utilizzavano resti già presenti in loco, perché non trovavamo nulla. Il branco più grande invece ha un comportamento predatorio più simile alla maggioranza dei branchi: una volta trovi predazione su cinghiale, una volta su capriolo, una volta su cervo. Parlo di un branco che ha un home range più o meno doppio rispetto agli altri due. Siamo sui 6000 ettari, che comunque rispetto alle “sparate” di decine di migliaia di ettari, ispirate dalla letteratura scientifica nordamericana, è niente.

    Dunque, si conferma che i dati che vengono da Stati Uniti e Canada, una volta calati nel contesto europeo, che è completamente diverso, si dimostrano poco attendibili, se non proprio perfettamente inutili.

    È assolutamente così. Detto altrimenti: senza avere un solo dato in mano, abbiamo continuato per decenni a costruire ipotesi e a fare stime sul lupo in Italia basandoci su parametri che non hanno nulla a che vedere con noi. Un’altra cosa che viene fuori chiaramente è che i lupi hanno una capacità straordinaria di vivere in ambienti antropizzati e che questa è sempre stata la norma nel nostro Paese. I dati storici ci dicono esattamente questo: i lupi hanno vissuto per secoli a ridosso dei villaggi, delle città, degli insediamenti agricoli sfruttandone al massimo le opportunità trofiche, che è un po’ quello che stiamo vedendo anche oggi.

    Dal punto di vista del lupo questa prossimità è estremamente funzionale e, dunque, ecologicamente diventa vincente.

    Certo. Noi siamo degli implacabili produttori di cibo per i lupi. Quando, seguendo gli animali radiocollarati, a un certo punto ci si accorge che cominciano a fare cose “strane”, immancabilmente scopri che vanno ad alimentarsi dove qualcuno si è liberato illegalmente di resti di macellazione, carcasse di animali morti, cascami. Tutte cose che dovresti smaltire altrimenti, con costi aggiuntivi spesso proibitivi. E qui tocchi con mano la stupidità di certi regolamenti comunitari. Sono queste le cose che favoriscono enormemente il lupo, che è un animale molto plastico e molto intelligente.

    Il trend di popolazione ci porta a un paio di migliaia in più dei 3.300 censiti e che quindi i lupi oggi in Italia tanto rari non sono.

    Se questa è la fotografia della situazione, quali scenari gestionali sarebbero possibili, o magari solo sensati?

    Si apre un serissimo problema di prospettiva, secondo me. Il primo problema è quello di valutare la possibile dinamica della popolazione di lupi italiana, perché fino ad ora ogni ragionamento poggiava su alcuni postulati che nel tempo sono diventati quasi dei dogmi. Per esempio: i lupi sono rari, il luogo comune più comune che ci sia. Se invece consideriamo i risultati del censimento nazionale, cioè 3300 lupi, e gli applichiamo un tasso di accrescimento medio prudenziale del 20% annuo, ampiamente riconosciuto in letteratura, è chiaro che il trend di popolazione ci porta a un paio di migliaia in più e che quindi i lupi oggi in Italia tanto rari non sono.

    A proposito di mortalità giovanile, la telemetria vi ha consentito di raccogliere dati interessanti?

    Direi estremamente interessanti. E precisi. Perché grazie alla telemetria si trovano le tane. Noi le abbiamo trovate per tutte le coppie che abbiamo seguito. E poi trovi le cucciolate. Individuata l’area è sufficiente monitorare la situazione con le fototrappole. Si raccolgono dati precisi, anno dopo anno. E scopri, per esempio, che in certi posti d’Italia la rogna si porta via cucciolate intere, e questo potrebbe essere visto anche come un meccanismo di regolazione naturale, ma che in certe altre zone ci sono intere cucciolate, anche di 6 individui, che sopravvivono al primo inverno senza alcuna perdita. Cosa che spiega anche la straordinaria spinta demografica che abbiamo registrato in certi contesti, a partire proprio dalle Alpi. La telemetria ci ha permesso di superare l’indeterminatezza delle stime toccando con mano le situazioni reali, tanto in rapporto alle dimensioni delle cucciolate, quanto sui tassi di sopravvivenza. E questo sia in aree di presenza consolidata che in aree di neo-colonizzazione, con dati molto differenziati e che vanno letti attentamente, direi quasi in filigrana.

    Ci sono davvero differenze così rilevanti?

    Sì, le differenze tra le diverse aree sono veramente rilevanti.

    Ma in funzione di cosa?

    Soprattutto, come sempre, della disponibilità di prede e più in generale della facilità di accesso alle risorse alimentari. Si conferma che nelle aree di nuovo insediamento, e quindi anche di minore competizione intraspecifica e di assenza di comportamenti antipredatori acquisiti da parte delle specie-preda, i tassi di sopravvivenza dei cuccioli sono tendenzialmente più alti, in linea, direi, con quello che ci aspettavamo.

  • Animali di plastica: Occorre cambiare la narrazione sul lupo Foto: (Foto: salto.bz)
  • Quello che pare di capire, grazie ai dati reali e un po’ a tutto il quadro d’insieme, è che si debba aggiustare in qualche modo anche la narrazione sul lupo…

    Se vogliamo sbloccare la situazione, è un passo necessario. In Italia la storia del lupo è stata prima il prodotto di un odio senza confini, per cui il lupo era il male assoluto, idea tipicamente europea poi esportata negli Usa attraverso le diverse ondate migratorie, con il risultato di portare la specie all’estinzione in 48 Stati. Dentro questa mentalità l’unica relazione possibile col lupo è sparare, ucciderlo. Un rapporto di alterità radicale, su cui solo molto tardivamente si è innestata una riflessione più complessiva sul nostro rapporto con gli ecosistemi, sulle violente trasformazioni ambientali dell’Ottocento, sullo stato di depredazione continua delle risorse naturali, anche e soprattutto faunistiche, che avevano spinto il lupo sempre più vicino agli insediamenti umani, con tutti i rischi connessi. A ribaltare completamente questo paradigma è stata l’”Operazione San Francesco” promossa dal Wwf e partita nel 1972, che ha veicolato un’immagine del lupo totalmente opposta. A quei tempi, oggettivamente, l’unica cosa possibile per ottenere dei risultati. Bisognava agire sull’opinione pubblica, aiutati ovviamente da fattori sociologici, culturali, demografici. Penso solo al fenomeno dell’inurbamento, che ha contribuito non poco ad allentare la pressione sui grandi carnivori. Naturalmente c’è poi la protezione legale, accordata alla specie a partire dal 1971. Il problema è che questa contronarrazione è stata talmente forte, efficace, e direi totalizzante, da riuscire a condizionare uno sguardo realistico sulla specie per i 50 anni successivi. Qualcosa con cui ci confrontiamo ancora oggi.

    L’Operazione San Francesco ha trovato il suo cuore pulsante nel lavoro di Boitani, Zimen e Mech che nel 1975 fotografava una popolazione italiana sulla soglia dell’estinzione: 100 esemplari, con un margine di errore di 30 individui, sparpagliati in dieci nuclei isolati lungo la dorsale appenninica centro-meridionale. Una pietra miliare della ricerca sul lupo in Europa…

    Alla luce di quello che abbiamo imparato negli anni sull’ecologia del lupo, sulla sua plasticità e sulle sue dinamiche di espansione, è altamente probabile però che quel numero fosse una sottostima. Magari erano 300-400, comunque pochi per un paese come l’Italia, ma tantissimi se, restando a quel periodo, alziamo lo sguardo a livello continentale. Probabilmente era la seconda popolazione di lupo a livello di Europa Occidentale dopo quella spagnola. Del resto, in quegli stessi anni, nel 1974, Luigi Cagnolaro attraverso schede segnaletiche inviate a 3500 stazioni forestali sparse per la penisola tra il 1971 e il 1973, documentava l’uccisione di 750 lupi nel decennio precedente. Un numero difficilmente in linea con l’ipotesi di una popolazione sulla soglia dell’estinzione. Certo, quella era un’indagine indiretta, dunque i dati dell’inchiesta di Cagnolaro vanno maneggiati a loro volta con attenzione. Ma il problema a questo punto è un altro…

    Il problema è che questa contronarrazione si è cristallizzata e che la forbice tra la situazione reale della specie in Italia e il suo racconto pubblico si divarica sempre di più. È così?

    Sì e no. Sì, perché effettivamente è così: l’idea del lupo come specie minacciata è ancora nettamente prevalente, soprattutto in ambiente urbano. No perché, non è si tratta solo di questo. Il fatto è che quel racconto pubblico ci impedisce di gestire al meglio l’oggi, il presente, e di farlo proprio a tutela del lupo. Un paradosso assoluto. Siamo in una sorta di paralisi da cui pare impossibile uscire.

  • Ostilità: Chiaro messaggio del mondo rurale sudtirolese in occasione dei fuochi del Sacro Cuore Foto: Twitter

    Il mondo rurale ha però col lupo un atteggiamento tutt’altro che benevolo.

    Vero, ma anche questo lascia il tempo che trova. Nascono comitati anti-lupo un po’ dappertutto, anche un po’ per effetto di rimbalzo rispetto al muro della tutela assoluta come dogma. Però spesso hanno il lupo intorno al paese da 20 anni e non si sono mai accorti di niente, tranne poi iniziare ad agitarsi quando qualcuno soffia sul fuoco. Perché soffiare sul fuoco, in genere, a qualcuno conviene sempre.

    Cosa significa in concreto, paralisi gestionale?

    Significa che di fronte a questa incredibile plasticità e variabilità adattativa del lupo, a questo quadro che si sta componendo grazie ai dati che stiamo via via raccogliendo, rischiamo di non avere strumenti per gestire la specie in modo specifico, differenziato. Non tutta l’Italia è uguale e dunque non dobbiamo fare le stesse cose dalle Alpi al Pollino, dovremmo puntare invece a una gestione a geometria variabile. Va anche riconosciuto che passi avanti, soprattutto nel campo della prevenzione, sono stati fatti. Anche nella dissuasione, e questo anche grazie al lavoro del mio gruppo. Abbiamo dimostrato che si può fare e che funziona. Terminata la fase sperimentale però, il tutto passa nelle mani della politica. Con la Regione Veneto è andata esattamente così: abbiamo messo a punto una serie di strumenti, anche molto innovativi, e poi si è arenato tutto. Restano inutilizzati. Un peccato, oltre che uno spreco. Adesso la nuova frontiera, da Trento a Bolzano ma un po’ dappertutto, è quella di ottenere deroghe dall’Ispra. Così poi si potrà esibire il lupo morto, magari appeso per la coda, e questo politicamente parlando paga molto di più.

    Ma è anche perfettamente inutile. Gli abbattimenti in deroga sono un feticcio che non sposta di una virgola la questione gestionale.

    È esattamente così. Quando in una provincia hai 30 branchi e hai il permesso di abbattere un lupo, due lupi, tre lupi, cosa ti cambia? Niente, assolutamente niente. Non cambierebbe niente neanche arrivando ad un prelievo standard del 10%. Siamo al paradosso che in diverse realtà ci contattano le associazioni degli agricoltori, degli allevatori, parlo della Coldiretti della Toscana o del Veneto, per chiederci come fare dissuasione, per aumentare la prevenzione mentre la politica rema in direzione diversa.

    L’impressione è che sul lupo e sui grandi predatori in generale si giochino troppe partite. E forse, in una situazione così polarizzata, quella tecnico-gestionale non è la più importante.

    Di questo passo non arriveremo mai ad una gestione ordinaria della specie, che è l’unica cosa che potrebbe portarci fuori da questo pantano. Il lupo va demitizzato. Va considerato come un qualsiasi altro grande mammifero che in alcune situazioni va gestito in un modo, mentre in altre va gestito diversamente. Hai un lupo problematico-aggressivo? Lo abbatti. Hai un allevamento piccolo o medio che ha problemi? Fai dissuasione e prevenzione. L’idea di fondo è che bisogna intensificare gli interventi dove ci sono gli attacchi al bestiame e, visto che i lupi non li puoi ammazzare tutti, perché neanche ci riesci, devi avere tanti strumenti a disposizione, tanta flessibilità, per arrivare ad individuare la soluzione migliore per quella specifica situazione.

    Serve anche adeguare il quadro normativo?

    Eccome. Un solo esempio: pensare di gestire la problematica degli ibridi con la legislazione attuale è praticamente impossibile. E forse, va detto, il tema in generale non è stato affrontato con la dovuta convinzione e determinazione. Un po’ come accade per i monitoraggi.

    In che senso?

    Nel senso che essere sul terreno e avere un quadro sempre aggiornato della situazione, soprattutto della localizzazione dei branchi, dovrebbe essere la precondizione per qualsiasi scelta gestionale. E invece in molte realtà non lo si fa, o lo si fa in modo largamente deficitario. La questione è che per mettere in campo una gestione proattiva efficace devi avere un dato di campo affidabile. Al pastore non serve sapere che nella sua provincia ci sono 200 o 400 lupi, serve sapere dove sono i branchi, e capire da dove gli possono arrivare i problemi.

    A proposito di gestione proattiva: in Veneto avete lavorato molto su questo tema, anche con delle soluzioni innovative.

    Sì, è esatto. In particolare, le cosiddette Virtual Fence, ovvero barriere virtuali. In sostanza quando un lupo radiocollarato entra in un’area precedentemente geodeterminata, il messaggio viene inviato a una serie di telefoni collegati. Contemporaneamente il collare aumenta la frequenza dei segnali di localizzazione, in modo da seguire meglio gli spostamenti del branco. E poi ci sono i sensori di prossimità, ovvero delle strutture fisiche che ricevono il segnale del radiocollare. A quel punto partono anche qui una serie di avvisi via satellite. Inoltre, le strutture possono essere collegate a degli avvisatori acustici o luminosi che, attivandosi, in genere, bloccano gli animali. Dove abbiamo utilizzato questi sistemi, le predazioni sono crollate dell’80%. In un caso però i lupi di un branco si sono abituati nel giro di un’estate e lì, allora, siamo intervenuti con la dissuasione, ovvero sparando proiettili di gomma.

    Ma questo modello sarebbe applicabile in modo estensivo? Oppure è adatto solo ad alcune situazioni dove la protezione classica non funziona?

    La seconda. Quello che abbiamo imparato è che non esiste la soluzione universale, tutto deve essere molto sito-specifico. Tra l’altro queste soluzioni, per il fatto che sono poco più che sperimentali, sono ancora costose. Il modello invece va benissimo se tu hai il branco critico che tende a mettere in difficoltà quei tre o quattro allevamenti. Gli interventi, ribadisco, per essere efficaci e sostenibili, vanno concentrati nelle aree critiche.

    Promuoverei una zonizzazione a livello nazionale, una zonizzazione seria, con aree dove il lupo non deve essere toccato mai, aree in cui il lupo può essere gestito date certe circostanze, e aree dove il lupo proprio non ci deve essere, penso alle città

    Un’ultima cosa: se a Marco Apollonio fosse data carta bianca per gestire il lupo in Italia, cosa farebbe?

    Prima cosa: non aprirei la caccia ma darei la possibilità di fare del controllo in casi specifici. In secondo luogo, promuoverei una zonizzazione a livello nazionale, una zonizzazione seria, con aree dove il lupo non deve essere toccato mai, aree in cui il lupo può essere gestito date certe circostanze, e aree dove il lupo proprio non ci deve essere, penso alle città e alle aree urbanizzate. Inoltre, organizzerei la gestione della specie sul terreno, facendo ricorso a personale specializzato, eventualmente affiancato da volontari appositamente formati e preparati. Credo, sinceramente, che questo sia l’unico modo per uscirne.

    Quando parliamo di zonizzazione non parliamo di confini amministrativi, giusto? Parliamo piuttosto di aree che abbiano un senso dal punto di vista dell’ecologia della specie, e dunque quasi inevitabilmente transfrontaliere, tra regioni diverse o tra province diverse.

    Ovviamente sì, la gestione del lupo non si può fare sulla base di confini micropolitici. Bisogna tenere presente tutta una serie di parametri, compreso il milieu culturale e sociale in cui gli interventi vengono calati. Con alcuni punti fermi; per esempio, che nei parchi nazionali i lupi non si toccano, mentre nelle aree a vocazione agropastorale si ragiona sulle singole situazioni. I lupi lì possono essere ridotti, non eliminati. Dove però c’è un branco particolarmente dannoso, lo si elimina.

    Un po’ “alla svizzera”…

    L’idea del pragmatismo svizzero è un po’ un mito che si autoalimenta. In realtà anche lì c’è molta ideologia. Dire, come hanno fatto, che in tutta la Svizzera c’è posto per 8 branchi di lupi è semplicemente ridicolo. Otto branchi ci sono solo in Val di Chiana e Val d’Arno, in Toscana, dietro casa mia. In Trentino sono 27 o più. Ma di cosa stiamo parlando? Poi attenzione perché, quando si parla di lupo, c’è anche l’altra faccia della medaglia. Se parlate con i viticoltori del Chianti sono tutti contenti perché da qualche anno hanno quasi azzerato i danni da capriolo. Grazie al lupo. Sull’Alpe di Catenaia, tra il Casentino e la Valtiberina, dove abbiamo un centro studi, per la prima volta ho visto un tappeto di querciole, con piante dell’anno. Sono gli stessi posti dove fino a dieci anni fa tutto veniva rasato a zero nel giro di 15 giorni. Nelle Foreste Casentinesi oggi trovi le rinnovazioni di abete bianco di un anno. Mai viste prima, eppure frequento quelle aree dal 1986. Questo è il risultato della presenza di un predatore che ha fortemente modificato lo status quo.

    È la cascata trofica, come accaduto a Yellowstone dopo la reintroduzione del lupo, nel 1995. Un cambiamento all’apice della piramide trofica che finisce col generare un effetto domino su tutti i livelli sottostanti.

    È esattamente così. In fondo bisogna solo capire cosa vogliamo. L’idea di non volere il lupo, secondo me, è stupida. L’idea di non volere il lupo a ridosso delle città, o addirittura in città, è invece una cosa ovvia. I lupi all’interno del raccordo anulare di Roma, non ci devono essere.

  • I fogli dell'orso

    (*) Il Parco Adamello Brenta realizza una pubblicazione divulgativa con un ottimo livello scientifico dedicata ai grandi predatori. L'intervista di Mauro Fattor a Marco Apollonio è comparsa sull'ultimo numero che è scaricabile qui

Marco Apollonio bietet ein wissenschaftliches und seriöses Fundament an, - wie mit Respekt vor unseren Mitgeschöpfen, Forschung und Verstehen -, eine Koexistenz gelingen kann.
Danke für dieses wertvolle Interview.

Di., 30.07.2024 - 19:11 Permalink
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Salto User
nobody

Wir haben ca. hundert Jahre ohne Wolf und Bär recht gut gelebt. Diese Expertenmeinungen ermüden auch zunehmend. Es ist wie bei Gericht, Anklage und Verteidigung, Gutachten und Gegengutachten. Wenn man will, findet man immer einen Experten für ein Gegengutachten.

Do., 01.08.2024 - 23:12 Permalink