“La più grande balla del secolo”
“Stiamo piantando il seme del progresso in un Paese devastato da guerra e sangue, probabilmente noi non ne vedremo i frutti ma mi auguro che lo faranno le prossime generazioni”, è ottimista, malgrado tutto, Malalai Joya, l’attivista afghana espulsa dal Parlamento per aver accusato di crimini di guerra, in un’intervista, i colleghi seduti in assemblea. Era il 2003, Malalai aveva 25 anni. Da allora vive nella semi-clandestinità, sotto scorta a Kabul. Minacciata di morte, è scampata a molti attentati. Abbiamo intervistato l’ex parlamentare a Bolzano dove qualche giorno fa ha fatto tappa per partecipare a un convegno pubblico organizzato dall'Associazione popoli minacciati in collaborazione con il Centro per la Pace, dopo essere stata ricevuta in Comune dal sindaco Caramaschi e aver incontrato gli studenti del liceo Carducci e Pascoli per raccontare le conseguenze dell’occupazione da parte degli Stati Uniti e della Nato e della condizione ancora estremamente arretrata delle donne in Afghanistan.
salto.bz: Malalai Joya, il coraggio con cui ha tenuto testa ai “Signori della guerra” l’ha resa un esempio per molti, ma quanto le pesa sulle spalle questa responsabilità dopo tanti anni di impegno indefesso?
Malalai Joya: Devo dire che negli anni la mia determinazione è cresciuta molto. Credo molto nella solidarietà delle persone e nella democrazia come forza imprescindibile da contrapporre alla esecrabile condotta dei guerrafondai e questo mi sprona e rende ancora così forte questa responsabilità che sento per continuare a lottare insieme ai tanti attivisti (uomini e donne) afghani. Lo dico sempre: una nostra vittoria è una vittoria di tutti, dell’umanità.
Va da sé che il prezzo da pagare è molto alto. Lei personalmente vive braccata a Kabul ed è costretta a stare lontana dalla sua famiglia e da suo figlio.
Per la sua stessa sicurezza ho affidato mio figlio alla nonna, lontano da Kabul, per un anno e mezzo non ho potuto incontrarlo, e ora sono di nuovo sei mesi che non ci vediamo. La mia non è una vita “normale”, mi muovo da un posto all’altro, cambio continuamente residenza, ma è un piccolo sacrificio in nome di una causa maggiore e ne vale la pena, perché credo in un futuro luminoso per il mio Paese. Penso ai milioni di cittadini afghani che chiedono solo giustizia, una giustizia che è stata loro negata per troppo tempo. C’è chi ha perso una sorella, un fratello, una madre, un padre, o tutta la famiglia. Stiamo piantando il seme del progresso in un Paese devastato da guerra e sangue, probabilmente noi non ne vedremo i frutti ma mi auguro che lo faranno le prossime generazioni.
La mia non è una vita “normale”, mi muovo da un posto all’altro, cambio continuamente residenza, ma è un piccolo sacrificio in nome di una causa maggiore e ne vale la pena, perché credo in un futuro luminoso per il mio Paese
Riceve ancora minacce di morte?
Sì, credono che se mi uccidono anche la falange progressista morirà con me e il popolo afghano allora non oserà più alzare la voce. Altri esponenti delle forze progressiste non hanno la stessa opportunità che ho avuto io nel 2003 di denunciare nell’assemblea della Loya Jirga la presenza in parlamento dei signori della guerra. Ma non è per difendere me stessa che mi nascondo, perché io non sono certo migliore di altri attivisti, penso a tutti gli uomini e le donne che stanno combattendo ad Afrin in questo momento, per esempio. Il punto è che se loro cadono è nostra responsabilità trovare altri combattenti per la libertà e io voglio portare avanti questa lotta. Certo è pericoloso, diverse volte hanno tentato di assassinarmi, hanno attaccato due volte il mio ufficio a Farah. In molti mi invitano nelle varie province afghane e io non posso andarci, ed è molto doloroso questo per me. Non che a Kabul la situazione sia più sicura, ma malgrado il rischio costante resto lì perché così politici, attivisti o giornalisti che vogliono raccontare quello che succede in Afghanistan possono venire a trovarmi dalle altre province.
Cosa significa essere una donna che fa politica in Afghanistan?
Dopo la cosiddetta “liberazione” dell’Afganistan da parte degli Stati Uniti e della Nato fra i fondamentalisti al potere comparvero anche le donne, la gente le chiamava “beautiful dolls” (“belle bambole”), il cui ruolo era totalmente simbolico, rappresentavano il regime fantoccio del Paese. In Afganistan una donna che si oppone al regime ha un significato molto rilevante visto che il genere femminile è il più vessato e sottomesso. Chi detiene il potere guarda alle donne solo come generatrici di figli o da usare per il proprio appagamento sessuale, sono cittadine di seconda classe. Una donna che alza la testa e combatte a mani vuote, con la sola forza della verità, della parola, della penna, sconvolge le carte in tavola. È capitato addirittura che molti uomini mi chiedessero di correre alle elezioni presidenziali, non badavano alla mia età o al fatto che fossi una donna. Questo mi fa pensare che sebbene sia dominata dal maschilismo questa società sia pronta a fare un passo verso il progresso. Ma continuo a chiedermi perché si parla sempre della condizione delle donne nell’era dei talebani e mai degli anni ’60 e ’70 quando le donne in Afghanistan godevano di alcuni diritti, quando potevano andare a scuola, per esempio, soprattutto a Kabul.
Il vecchio regime talebano ha solo cambiato il colore della bandiera e il nome, ora si fa chiamare Isis, ma la natura è la stessa, e tutti hanno un interesse da spartirsi nel Paese, gli stessi talebani, le potenze occupanti, i Signori della guerra
Com’è oggi la situazione nel Paese?
Ancora molto grave. E lo è da tempo, con il beneplacito della politica. Basti pensare che il parlamento ha approvato la legge sull’amnistia per i crimini di guerra commessi in Afghanistan negli ultimi 30 anni. Si sono auto-assolti, insomma. Il vecchio regime talebano ha solo cambiato il colore della bandiera e il nome, ora si fa chiamare Isis, ma la natura è la stessa, e tutti hanno un interesse da spartirsi nel Paese, gli stessi talebani, le potenze occupanti, i signori della guerra.
E intanto continuano gli spargimenti di sangue, l’ultimo attentato quello alla moschea sciita di Herat, il 25 marzo scorso.
L’ennesima strage. Oggi i cimiteri e gli ospedali sono pieni. Questi eventi sono all’ordine del giorno insieme agli attacchi con i droni, a esecuzioni pubbliche, stupri di gruppo, rapimenti, oltre al traffico di droga (più di 3 milioni di afgani sono tossicodipendenti, soprattutto donne e giovani), corruzione. Un quadro catastrofico. Prima di Herat un altro attentato kamikaze era avvenuto a Kabul qualche giorno prima, durante il Nawruz, il capodanno persiano. E nonostante la violenza con cui convivono ogni giorno le persone hanno ancora voglia di scendere in piazza quando c’è un’occasione da festeggiare, come quella del capodanno, appunto, per poi restare vittime di attacchi suicidi che uccidono migliaia di innocenti. Penso per esempio a Hamida Barmaki, professoressa di diritto all'Università di Kabul, uccisa dai terroristi talebani insieme al marito Massoud Yama e ai loro quattro figli. Se la sicurezza non esiste come facciamo a parlare di democrazia, giustizia o pace?
Essere un rifugiato non è un crimine. Bisogna agire secondo le regole internazionali relative al diritto di asilo, con buona pace dei governi occidentali, incluso quello italiano, che sono responsabili per la disastrosa situazione in Afghanistan
E chi può fugge via.
Questa ondata di persone che dall’Afghanistan cerca asilo in Europa è una prova evidente dell’inferno in cui è finito il Paese, ma essere un rifugiato non è un crimine. Bisogna agire secondo le regole internazionali relative al diritto di asilo, con buona pace dei governi occidentali, incluso quello italiano, che sono responsabili per la disastrosa situazione in Afghanistan. E intanto gli Stati Uniti e la NATO continuano a dire che portano sicurezza nel Paese, più diritti per le donne…
Il coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto afghano è entrato nel suo 17esimo anno.
Sono coinvolti in Iraq, Libia, Siria, Yemen, Palestina, Ucraina, hanno portato guerra, bombe, distruzione, tragedie. Questa “guerra al terrorismo” in Afghanistan è la più grande balla del secolo, buona solo per assolvere i fondamentalisti, i governi fantoccio, i bombardamenti. La “madre di tutte le bombe” è servita agli americani per dimostrare a russi e cinesi chi fosse il più forte.
L’istruzione è la chiave per il progresso, per l’emancipazione della mia gente, soprattutto delle donne
Nel silenzio della comunità internazionale?
C’è da fare un distinguo, una cosa è la comunità internazionale che è solidale con il popolo afghano e le sue sofferenze e l’altra è la sedicente comunità internazionale che è un attrezzo in mano al governo americano. Sono stati fatti errori madornali, penso ad esempio a Gulbuddin Hekmatyar, il “macellaio di Kabul”, il cui nome è stato cancellato dall’Onu dalla “black list” dei terroristi globali e accolto con tutti gli onori in Afghanistan come mediatore di pace. Abbiamo bisogno di credere in una solidarietà collettiva a livello internazionale e abbiamo bisogno di aiuto, un aiuto onesto. Il mio appello al mondo è quello di supportarci, c’è tanto lavoro da fare soprattutto nell’ambito dell’istruzione, il cui livello è ancora drammaticamente basso, con 3.5 milioni di bambini in età scolare che a scuola però non possono andare. L’istruzione è la chiave per il progresso, per l’emancipazione della mia gente, soprattutto delle donne.
Ha parlato dello stato in cui versa il suo Paese di fronte a una moltitudine di studenti di Bolzano, ci racconta di quel momento?
A Bolzano come in ogni posto in cui vado i giovani per me sono fonte di speranza e ispirazione. I volti, gli occhi e i loro cuori gentili ci parlano di un futuro radioso. Succede che a volte alcuni ragazzi si commuovano quando racconto loro le sofferenze del mio popolo, mostrano la loro empatia e vicinanza, alcuni mi hanno addirittura scritto delle poesie, altri chiedono cosa possono fare per noi. Anche per questo resto ottimista, sono sicura che vinceremo questa battaglia, ci credo con tutte le mie forze.