Nonostante il viso della morte
Alle ore 21 e 35 del 30 gennaio scorso suona il telefono. È la mia amica E.P. che con respiro affannoso mi dice: “È morta la Pastora… l’hanno uccisa… terribile…”.
La Pastora non necessitava di un nome. Da Trento a Bolzano si sapeva che era quella sorta di amazzone, di bellezza fresca e dal corpo slanciato, arrivata dall’Etiopia con 200 euro in tasca e che con il suo bastone da pastora andava in cerca di guai. Amare la terra, considerarla sua e curarla come ogni essere vivente dovrebbe fare.
Abbiamo pensato che a uccidere sia stato l’uomo bianco; che sia stata l’azione della solita mente alterata dal razzismo e dalla xenofobia. Sarebbe stato più facile da comprendere. Invece no. Eppure, nelle fondamenta di ogni piccolo passo contro l’ordine delle cose, che sia una prima pietra di un ponte che lega due villaggi avversari, di un luogo di culto accanto ad un altro, il gesto di una donna che decide di togliere il velo o di quella che decide di indossarlo e di altre cose minime come queste, c’è sempre una qualche ferita, perdita, come in un sacrificio azteco, sangue dal lobo dell’orecchio, sangue dalla lingua. Spesso colui che ferisce è chi credevi che fosse dalla tua parte, chi credevi compagno di strada. Spesso la morte può avere un volto caro. E il volto caro di chi ha ucciso Agitu è quello del suo custode africano. Ma questo è già una cosa passata. Il fatto è accaduto. Niente può placare in noi il disgusto e l’afflizione per quello che le è successo. Tuttavia, comunque siano i risultati delle indagini, niente da ora in poi può togliere alla figura di Agitu quello che ha già fatto.
...i fatti di questa cronaca nera nauseabonda, gli elementi insulsi che invaderanno i media, non possono e non devono incidere su quello che questa splendida donna ha rappresentato e rappresenta: una guerriera ecologica
È stato reale il suo impegno in Etiopia contro l'occupazione delle terre da parte delle multinazionali e dei Paesi stranieri; reale il suo progetto d’allevamento della capra mochena in Trentino e il recupero delle terre abbandonate. Reale il suo addormentarsi in auto per difendere queste capre beate dagli orsi, insegnare ai giovani trentini il mestiere del casaro, dare lavoro ad altri giovani africani.
Per questo i fatti di questa cronaca nera nauseabonda, gli elementi insulsi che invaderanno i media, non possono e non devono incidere su quello che questa splendida donna ha rappresentato e rappresenta: una guerriera ecologica. Come Irmã Dorothy Stang, con il suo «Foresta in piedi: voluta da Dio e protetta da noi» assassinata con sei colpi di pistola, all’alba del 12 febbraio del 2005, su una strada fangosa dell’accampamento. Come Berta Chacares, per la sua difesa del fiume Gualcarque, minacciato dalla costruzione di una diga, uccisa il 2 marzo del 2016 da colpi di arma da fuoco.
Le sue scelte ecologiche hanno messo a rischio la sua vita costantemente. È andata oltre, ha lottato per il bene di un paese che il più delle volte l’ha considerata “straniera e brutta negra”. Eppure in quel paese ha allevato le loro capre, ha prodotto i loro formaggi, ha coltivato i loro ortaggi, seminato parecchi sogni in poco tempo. La morte non può vietare che i semi diventino alberi, fusti sani e fiori.
Persino ora, dalla vita compiuta all’eterno: buon compleanno a lei! Venuta dalle terre dei rinoceronti neri e delle gazzelle dalla fronte rossa, e delle lontre con la gola macchiata! Buon compleanno a lei con la pelle luminosa e la bocca gaia, venuta dai tramonti di Addis Abeba e dalla patria degli scialli bianchi! Alla donna accasciata per terra, martellata e violentata, in valle dei Mocheni! Buon compleanno alla Regina della resistenza!”.