Faccio i miei complimenti a Massimiliano Boschi e al sito Alto Adige Innovazione, che tra martedì e giovedì hanno organizzato a Bolzano un convegno dedicato al tempo che verrà (l'iniziativa si intitolava “Three days for future”, facendo un po' il verso ai Fridays di Greta Thunberg, ma senza precipitare in un baratro apocalittico). Si è infatti cercato di ragionare sulle prospettive di un territorio, quello in cui viviamo, in genere con gli occhi puntati nello specchietto retrovisore anche quando vorrebbe spacciarsi per “contemporaneo”: qui il passato e le "memorie" sono talmente ingombranti da murare l'orizzonte più delle proverbiali montagne.
Sapessimo esattamente cosa sta per accadere è probabile che ci mancherebbe la voglia di vivere
Ma come sarà, dunque, il futuro che ci attende? Francesco Palermo – una delle rare teste pensanti di questo posto – ha ricordato nel dibattito finale una verità innegabile: "facciamo pure quattro ipotesi sul futuro, se ne verificherà una quinta, quella a cui non avevamo pensato". Sul futuro si possono insomma edificare sogni, speranze, attese, talvolta incubi, ma pochissime certezze. E in fondo è anche un bene: sapessimo esattamente cosa sta per accadere è probabile che ci mancherebbe la voglia di vivere.
Voglia, appunto. Se è dunque praticamente impossibile parlare di futuro in modo circostanziato, non ci resta che alludere alla sua desiderabilità, come suggerisco anch'io nel mio titolo. E qui cade la domanda, anzi la questione (die Frage, direbbero i filosofi tedeschi, tra una cucchiaiata e l'altra di zuppa d'orzo) sull'effettiva fame di avvenire che si riscontra da queste parti. Chi dimostra di possederne di più, e con quali linguaggi, gesti o cenni la sta esprimendo? L'idea che mi sono fatto è che di tale fame se ne veda poca, non perché non ci sia, ma perché i soggetti che potrebbero essere i suoi maggiori interpreti sono di fatto ancora coperti (se non proprio schiacciati) da chi, di quella voglia, non sa bene cosa farsene, essendo tutto proteso a consolidare quel che già c'è, quel che già si ha.
Nel futuro vorrei meno discorsi su tradizioni, identità da preservare, competenze da arraffare, vittimismi da esibire
Ecco due immagini che mi sono appuntato. La prima: se il futuro fosse una casa da costruire bisognerebbe stare attenti a non usare solo mattoni vecchi, già utilizzati in passato. La seconda: non è detto che il futuro di un luogo si prepari o si eventui esclusivamente in loco, occorre cioè far circolare idee spiazzanti, spingere l'interno verso l'esterno e lasciare che qualcosa di esterno passi all'interno. Senza una simile respirazione tutto fatalmente si blocca, ci si rinchiude nei teatri a dirsi “wow quanto siamo belli!” e poi, fatalmente, spuntano quelli che stanno ancora a biascicare sul 1914.
Dovessi esprimere il mio auspicio per l'Alto Adige/Südtirol del futuro direi: meno discorsi su tradizioni, identità da preservare, competenze da arraffare, vittimismi da esibire; più coraggio nell'innovare e passione per odori, sapori, colori, suoni mai sperimentati. Meno soldi pubblici a cementificare rendite di posizione costruite tutte sul déjà vu, e più aiuti per chi magari non ha rendite di posizione garantite a parargli il deretano. Mi piacerebbe anche che il divario mentale tra capoluogo (la Bolzano dei ponti sospesi sulla paura) e periferia (il fatidico mondo della valli) si riducesse o diventasse dialettico, non – com'è adesso – vettore d'indifferenza, se non proprio di esclusione reciproca. Vorrei, infine, che almeno uno dei prossimi governatori fosse una donna di origine albanese, ecologista, seguace della Chiesa del SubGenio, avesse frequentato le scuole elementari a Lasa, le medie a Bolzano, le superiori a Vienna e l'Università a Leeds (pagandosi gli studi facendo la danza del ventre o cucinando e vendendo cavallette fritte). Magari ci beccheremo ancora per cinque legislature il nipote di Durnwalder, ma seminiamo almeno il terreno per un futuro, ancorché remoto, degno di questo nome.