La campanella è suonata per tutti?
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Era metà settembre quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella firmò il cosiddetto decreto Caivano, il provvedimento con “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale”. Caivano è un comune della città metropolitana di Napoli salito alla cronaca a fine estate dopo la denuncia degli abusi sessuali perpetrati per mesi da un gruppo di giovanissimi su due bambine. L’articolo 12, riguardante le “Disposizioni per il rafforzamento del rispetto dell’obbligo scolastico”, introduce la pena fino a due anni di reclusione per i responsabili del minore nell’ipotesi di dispersione assoluta (il minore mai iscritto a scuola nonostante l’ammonimento) e fino a un anno di reclusione qualora il minore, pur iscritto, faccia un numero di assenze tale da eludere l’obbligo scolastico. In Italia l’obbligo scolastico prevede il dovere all’istruzione e formazione per almeno dieci anni, fino al compimento dei sedici anni, età minima per l’accesso al lavoro. In questo scenario, con il concetto di abbandono scolastico s’intende l’interruzione definitiva degli studi senza aver conseguito un titolo di scuola secondaria di secondo grado da parte di giovani con al massimo la licenza media.
Secondo i dati pubblicati dalla Fondazione Openpolis, nel 2021 la percentuale di giovani tra i diciotto e i ventiquattro anni con al massimo la licenza media è dell’8,7% in Basilicata, dell’8% in Abruzzo e del 7,6% in Molise. Questi numeri spiccano in positivo dato che, sebbene nel decreto Caivano siano previste misure specifiche per le istituzioni scolastiche del Sud d’Italia nell’ambito del piano “Agenda Sud”, proprio per contrastare il fenomeno che ha dimensioni preoccupanti soprattutto nel meridione, tali regioni hanno già raggiunto l’obiettivo fissato dall’Unione Europea che vede al 9% la soglia massima di abbandoni scolastici.
Secondo Astat il 61,8% dei giovani Elet sono occupati, un fatto che fa desumere come in Alto Adige solo in parte gli Elet delineino una situazione di “rischio” emarginazione sociale.
Ma come s’inserisce la realtà scolastica del Sudtirolo in questo contesto? Per provare a capire la situazione sudtirolese non si può prescindere dalla sua struttura che prevede tre differenti sistemi organizzati in base alla lingua parlata: la scuola tedesca, che accoglie il 72% della popolazione scolastica, la scuola italiana, con il 25% della popolazione scolastica e la scuola ladina con il rimanente 3%. Secondo i dati Astat relativi all’anno 2021 la quota di Elet – Early Leavers from Education and Training – sui giovani di diciotto-ventiquattro anni si attesta a 12,9%, una percentuale che potrebbe sorprendere se paragonata a quella del vicino Trentino pari all’8,8% e a quella della Sardegna che si attesta al 13,2%. Usando la Sardegna come confronto, appare però necessario valutare altri indicatori che delineano differenze sostanziali tra le due realtà: il Pil pro capite e la disoccupazione giovanile. Se il Pil pro capite sardo è pari a 21.745,53 euro, quello sudtirolese è di 44.054; inoltre laddove in Sardegna la disoccupazione giovanile è del 23,7%, in Sudtirolo è del 4,2%. Con questi dati alla mano, sembrerebbe che in Alto Adige la facilità di accedere al mondo del lavoro possa giocare un ruolo decisivo nella scelta di non terminare il percorso di studi. Secondo la stessa Astat, infatti, il 61,8% dei giovani Elet sono occupati, un fatto che fa desumere come in Alto Adige solo in parte gli Elet delineino una situazione di “rischio” di emarginazione sociale, in quanto il mercato del lavoro locale per le sue peculiarità consente anche a questa fascia di giovani con il solo titolo di studio secondario inferiore di trovare un’occupazione. Ciò vale però solo al netto della convinzione che la priorità sia che i ragazzi abbiano una qualsiasi forma di occupazione e non che possano vivere l’esperienza scolastica, intesa come possibilità di relazionarsi tra pari e di costruire una propria identità.
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A tal riguardo, i rappresentanti della scuola tedesca e quelli della scuola italiana sembrano avere posizioni diametralmente differenti: come vedremo più nel dettaglio, i due sistemi sembrano ritenere che il problema dell’abbandono scolastico riguardi solo “l’altro”. Gli ispettori provinciali per la scuola italiana Andrea Felis e Patrizia Corrà riferiscono che preferire il lavoro allo studio “non riguarda certamente la comunità di lingua italiana, in cui quasi il 60% della popolazione studentesca dell’istruzione è iscritta nei licei, che non hanno alcuna vocazione a una precocizzazione di entrata nel mondo del lavoro. Anzi, il tema è l’opposto: calano le iscrizioni in percorsi professionali o tecnici che avrebbero maggiore aderenza alle esigenze del mercato del lavoro locale, anche in ambito dei servizi pubblici e amministrativi, con la conseguenza che diversi posti di responsabilità intermedia del comparto pubblico – con contratti statali o provinciali – vanno deserti”. Felis e Corrà sottolineano che “Il 13% [percentuale di Elet riportata dalla stessa Astat] non ha corrispondenza col sistema istruzione/formazione di lingua italiana, che si attesta invece presumibilmente sul 2% circa”.
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Quest’affermazione non trova però consonanza con i dati che trapelano da uno studio realizzato dall’Istituto Apollis e finanziato dal Fondo Sociale Europeo secondo il quale la scelta di interrompere gli studi per un mestiere non è una prerogativa nemmeno della comunità di lingua tedesca. Dalla ricerca emerge che la percentuale di abbandono scolastico nelle scuole tedesche è minore rispetto a quelle italiane: del 16,5% in quest’ultimo caso, del 10,6% negli istituti tedeschi, del 9,9% nelle scuole ladine. A citare quest’indagine è il direttore per l’istruzione e la formazione tedesca Gustav Tschenett, che ricorda come i dati siano da inserire in un contesto culturale differente tra il mondo italiano e tedesco: “Nelle scuole tedesche è alta la percentuale di ragazzi iscritti alle scuole professionali e che sono apprendisti. Prendiamo come esempio le studentesse parrucchiere, che frequentano la scuola solo il lunedì, giorno di chiusura dei saloni. Pur frequentando le lezioni raramente, non rientrano tra gli abbandoni scolastici. Potrebbe essere che nelle scuole tedesche, dove l’apprendistato è comune, meno ragazzi lascino la scuola perché hanno la possibilità di non starci tutto il giorno e tutti i giorni”. Diversa è invece la posizione di Albert Videsott, ispettore per le scuole ladine, secondo il quale “la possibilità di accedere, soprattutto nel settore turistico, facilmente a un’occupazione è un fattore che va tenuto in considerazione”. Aggiunge, inoltre, Videsott che “bisogna considerare la possibilità di ottemperare all’obbligo formativo con i percorsi offerti dalle scuole professionali provinciali”. È sempre dallo studio Astat che si apprende, infatti, come il mercato del lavoro sudtirolese sia caratterizzato da una bassa quota di occupati con titolo di studio terziari (laurea o post-laurea) rispetto ad altri territori sia in Italia che tra i Paesi confinanti, da una forte occupazione di persone con il titolo di studio secondario sia inferiore sia superiore e dalla presenza di occupati in profili professionali con bassa qualifica caratterizzati spesso dal solo titolo di studio secondario inferiore. Ci si trova dunque davanti a una sorta di paradosso: se per Tschenett, che analizza la situazione attraverso lo studio di Apollis, i percorsi professionalizzanti tipici del sistema tedesco potrebbero rappresentare il motivo del minor abbandono dalle scuole tedesche, per Felis e Corrà i percorsi liceali tipici del sistema italiano sono la ragione per cui gli studenti di lingua italiana “non hanno alcuna vocazione ad una precocizzazione di entrata nel mondo del lavoro”.
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Nell’affrontare il fenomeno dell’abbandono scolastico ci si scontra anche con i cosiddetti Neet – Not in Education, Employment or Training –, ovvero i giovani che non hanno un lavoro e che non sono inseriti in attività di studio o formazione. In questo caso la provincia di Bolzano presenta una quota decisamente inferiore rispetto alla media italiana – 13,3% contro il 23,1% italiano e il 17,6% trentino – e in linea con quella europea. Eppure è l’analisi di questo dato che presenta lo scenario potenzialmente più fragile. Secondo i dati Astat, infatti, a esclusione della fascia d’età quindici-diciannove, la quota di Neet si distribuisce in numero maggiore tra la popolazione femminile fino ad arrivare alla fascia trenta-trentaquattro anni dove la percentuale di uomini Neet è un terzo rispetto a quella delle donne. Concentrandosi sui giovani che non studiano e non lavorano, il 54% risulta non essere alla ricerca di un mestiere e di non essere disponibile a un’attività perché impegnato a ricoprire il ruolo di genitore. Facendo dialogare questa percentuale con il dato che vede soprattutto le donne tra i Neet, il quadro che ci viene restituito è potenzialmente problematico poiché mostra l’assenza di un legame motivazionale che invogli a una definizione di sé fuori dal contesto domestico. Queste differenze di genere si possono intrecciare con il retaggio culturale se si tiene conto del fatto che la quota di Elet è molto più alta tra i maschi (15,9%) che tra le femmine (9,8%), situazione che potrebbe al contrario suggerire che le donne abbiano una minore probabilità rispetto agli uomini di rientrare tra i Neet. La ripartizione dei ruoli sembra dunque rispecchiare anche in Sudtirolo lo schema tradizionale che vuole le donne ancora occupate nel lavoro di cura non retribuito.
Io torno a dire che la…
Io torno a dire che la scuola bisognerebbe conoscerla bene, e anche le differenze tra le comunità che vivono in questa provincia, prima di mettere in dubbio dati o riferire dichiarazioni. Bisognerebbe anche considerare la veridicità dei dati stessi, da che tipo di studio emergono, con quali caratteristiche. Non c'è alcun dubbio che la comunità in lingua italiana veda troppo negativamente le esperienze professionali, cosa che ho sempre sostenuto essere un pregiudizio negativo che alla fine danneggia i giovani stessi. Non mi sembra però che queste considerazioni implichino il pensiero che i problemi siano solo degli "altri". Sappiamo bene che in Sudtirolo abbiamo una percentuale di laureati estremamente bassa rispetto all'Italia ma soprattutto all'Europa e sappiamo anche che per molti studiare non è una necessità per vivere (gestendo l'industria turistica)come invece è sempre stato per il gruppo italiano. Da cui discende anche la considerazione sulla questione femminile. Viviamo in una situazione paradossale per questo ed altro, inutile stupirsi.
Antwort auf Io torno a dire che la… von Simonetta Lucchi
»Sappiamo bene che in…
»Sappiamo bene che in Sudtirolo abbiamo una percentuale di laureati estremamente bassa rispetto all'Italia«
Welche Quelle haben Sie für Ihre Aussage?
Studiare necessità per…
Studiare necessità per vivere?
Dal momento che di scuola e…
Dal momento che di scuola e istruzione si parla e si giudica in lungo e in largo anche da parte di chi nella scuola non ci ha lavorato un giorno, credo che il minimo sia informarsi e cercare le fonti. Se l'ho fatto io, possono farlo tutti. Altrimenti, si affrontino altri argomenti, non mancano di certo.