Mi è capitato più volte di immaginare che si potrebbe scrivere una storia abbastanza completa del conflitto etnico linguistico tra italiani e tedeschi in Alto Adige e zone limitrofe solo parlando di scuola.
Si potrebbe cominciare, solo per fare un esempio, da quel che succedeva sul finire dell'ottocento nelle zone che oggi noi conosciamo come Bassa Atesina. Erano territori, in parte di recente bonifica, dove si registrava un'immigrazione piuttosto cospicua dalle valli del Trentino. La cosa aveva destato la preoccupata attenzione delle associazioni che difendevano il carattere teutonico di quella terra e che finanziavano la costruzione di scuole in lingua tedesca. Uno dei passaggi seguiti con polemica attenzione anche dalle controparti italiane era quello dei censimenti ordinati ed eseguiti dai funzionari imperiali. Uno dei criteri (non l'unico) per definire l'appartenenza a questo o quel gruppo linguistico era il tipo di scuola a cui venivano iscritti i figli. Solo che, all'epoca, di scuole italiane nella Bassa non ce n'erano e questo, dicevano gli osservatori italiani, contribuiva a falsare i conti. Sulla questione si continuò a discutere anche dopo l'annessione all'Italia, quando la creazione di scuole italiane tra Ora e Salorno fu uno degli argomenti di scontro più aspri tra il commissario Credaro e i sindaci tedeschi della zona. Non è casuale poi che l'atto introduttivo della famosa marcia fascista su Bolzano dell'ottobre 1922 sia stata l'occupazione di una scuola con la cacciata degli alunni tedeschi in favore di quelli italiani.
Se è pacifico che il culmine del progetto di snazionalizzazione di Mussolini nei confronti dei sudtirolesi fu raggiunto con la soppressione delle scuole tedesche, è altrettanto evidente che l'unica vera forma di resistenza organizzata, di ribellione illegale della minoranza nei confronti di Roma fu proprio quella delle scuole clandestine di lingua tedesca. Non è un caso che Angela Nikoletti e Josef Noldin, morti per i maltrattamenti subiti al confino, vi fossero stati inviati proprio per essere stati tra gli organizzatori di quei corsi clandestini.
Finita la guerra e rinata, non senza uno sforzo titanico, la scuola tedesca i terreni dello scontro sono diventati altri: quello della separazione tra i gruppi in primo luogo. È ancor fresco di stampa il secondo statuto che prevede l'obbligo del bilinguismo per il pubblico impiego quando, a metà degli anni 70, in base ad un'interpretazione del tutto discutibile e poi completamente rivista dell'articolo 19, la SVP blocca la sperimentazione avviata dall'allora assessore comunale Remo Ferretti dell'insegnamento precoce del tedesco negli asili. Sarà l'inizio di una furibonda battaglia politica che arriverà a lambire, con le iniziative di un comitato di genitori, anche la soglia del Quirinale. Inutilmente.
Un altro fronte di tenace polemica si apre qualche anno dopo quando i vertici della scuola tedesca intervengono per bloccare gli incontri tra liceali dei due gruppi. Sarà discutendo di ciò in consiglio provinciale che l'assessore tedesco Zelger staccherà il suo personale biglietto per l'immortalità pronunciando la famosa frase "più saremo divisi più ci capiremo".
Di scuola si occupavano spesso e volentieri anche le cronache locali e nazionali. Resta nella memoria la battaglia combattuta da una studentessa italiana che riteneva di essere stata ingiustamente bocciata dai professori di un liceo tedesco. Restano i sopralluoghi d'obbligo degli inviati in arrivo da sud alle recinzioni posteriori, rigidamente separate, di due scuole medie, italiana e tedesca, di un quartiere periferico bolzanino. Una rete ideale cui appendere il sostantivo di apartheid.
Nel frattempo il conflitto sul bilinguismo precoce cresceva d'età e diventava la diatriba sulla cosiddetta immersione linguistica, mutuata dall'esperienza catalana, varata in maniera semiclandestina in qualche scuola. Il tutto con un rumore di fondo derivante dalla richiesta sempre reiterata e sempre ignorata di una scuola bilingue, copiata magari dal modello di successo di quella ladina.
Così, lustro dopo lustro, si arriva sino ai giorni nostri con i segnali di fumo di chi paventa che l'invasione dal basso di tanti piccoli italiani e nordafricani possa riuscire laddove fallì dall'alto Ettore Tolomei. Riparte la discussione ed è sempre difficile, oggi come un secolo e mezzo fa, capire dove comincia l’esegesi didattica e dove finisce il contrasto etnico-linguistico.