Viaggio al termine della notte
Il treno delle 21.30 da Bolzano per Roma è già pronto sul binario. L'arrivo nella capitale è previsto per le sei di mattina. Qual è l'ultima volta che ho preso un treno notturno? Ho solo remoti ricordi. Quando, partendo da Livorno, sono andato un paio di volte a Parigi. O quando stavo in Germania, a Brema, e non si poteva fare altrimenti. Quasi vent'anni dopo, tornare a prendere un treno di notte mi incuriosisce e scopro con piacere che non è cambiato quasi nulla. Seconda classe, le carrozze sono ancora quelle, gli scompartimenti a sei posti e la promessa di scivolare verso la destinazione prescelta con tutta la lentezza di un secolo fa. Andare alla ricerca del tempo perduto implica una buona dose di pazienza.
La partenza è puntuale, lo spazio tutto per me. Viaggerò da solo? Troppa grazia. Infatti a Rovereto la porta si apre ed entra un ragazzo. Decido di non chiudermi in me stesso, ripongo il libro che stavo leggendo e gli rivolgo le domande che in genere si fanno per attaccare discorso. Mi racconta che è di Taranto, che è salito in Trentino per incontrare la fidanzata (“Ci siamo conosciuti su facebook”) e che sta pensando di lasciare la Puglia: “Da noi, al Sud, non c'è alcuna speranza, l'unica cosa da fare è partire”. Ha appena diciotto anni, vorrebbe diventare meccanico ma sembra già consumato dalla rassegnazione. Gli chiedo se pensa davvero che l'unica via d'uscita sia cercare la fortuna lontano da casa. La conferma è cupa: “Ognuno aspetta che accada qualcosa, nessuno alza un dito per cambiare la situazione”.
(Quante volte abbiamo ascoltato frasi del genere? Il pregiudizio, coltivato al Nord, di un Sud indolente e privo di forza reattiva, pregiudizio che nelle sue forme estreme diventa poi un giudizio senza appello – là sono tutti così e la loro massima aspirazione è quella di vivere da parassiti sulle spalle delle regioni più produttive del Paese – non viene smentito neppure da chi al Sud ci abita. Al contrario: non è raro trovare proprio negli abitanti del Sud una strana forma di cupio dissolvi. Pare dunque che la questione meridionale, nata con l'Unità d'Italia, sia destinata a sparire solo mediante la fine di questa unità)
A Verona entrano parecchi napoletani e una coppia di africani (un uomo e una donna, probabilmente marito e moglie). Anche i napoletani sembrano fatti apposta per confermare il pregiudizio che si ha di loro. Parlano un dialetto incomprensibile, ad alta voce, e si siedono occupando i posti riservati agli africani. Nasce ovviamente subito un piccolo diverbio. L'uomo africano tira fuori il biglietto con le prenotazioni. In tono aggressivo uno dei napoletani intima all'uomo di “parlare italiano”. La situazione è grottesca, visto che l'uomo ha parlato e parla senza problemi l'italiano, mentre finora a non parlare italiano erano proprio i napoletani. La ragione prevale e la coppia, che con grande dignità non ha ceduto alla latente intimidazione continuando a rivendicare con pacatezza i propri posti, si siede. I napoletani – sono in tre o quattro, entrano ed escono continuamente dallo scompartimento – si preparano ora a fare i turni per occupare gli unici due posti rimasti disponibili. Intanto è passata mezzanotte e, dopo una lunga pausa, il treno si stacca con un sussulto da Verona.
Il controllore apre la porta, dice “buonasera” (anche se la “sera” è diventata già da un pezzo “notte”, tanto che nello scompartimento stavamo quasi tutti dormendo) e accende la luce. Io, il ragazzo pugliese, che nel frattempo ho scoperto si chiama Francesco, e la coppia africana mostriamo il biglietto. I napoletani, invece, iniziano a discutere, a protestare. Solo uno di loro ha il biglietto, gli altri ce l'hanno ma, dicono, l'hanno dato ad altri napoletani, che stanno in altri scompartimenti. Il controllore pretende che vengano recuperati i biglietti, ma trattiene uno di loro per evitare probabili imbrogli. E' una scena pietosa, anche perché quasi annunciata. Alla fine un napoletano è costretto a pagare la multa. Altre discussioni senza fine, rese volontariamente difficili dall'ostinazione dei napoletani a parlare in dialetto (e se non è ostinazione è incapacità di parlare un'altra lingua che non sia il dialetto). A un certo punto arriva anche la Polizia, per fortuna vengono fuori i soldi (42 euro) e tutto torna più o meno tranquillo. I napoletani però a questo punto non sono più disposti a fare i turni per sedersi e praticamente costringono i due africani e Francesco a stringersi per fare posto a uno di loro. Davanti a me, stretti come sardine, adesso sono seduti in quattro, nessuno dei “non napoletani” ha comunque voglia di protestare. Proviamo di nuovo a dormire.
(Ripenso alla scena appena vista, all'assurda discussione tra i napoletani e il controllore, impostata al solo scopo di non pagare il biglietto. Tra gli argomenti sfacciatamente portati a sostegno dell'evasione: “sicuramente nel treno ci sono extracomunitari che viaggiano gratis”. Per fortuna il controllore, con assoluta calma, ha ribattuto che “tutti devono pagare il biglietto”. Com'è triste confermare i nostri pregiudizi. Sicuramente ci saranno molti “napoletani onesti”, che pagano il biglietto e non invadono gli scompartimenti con l'arroganza di chi è dell'opinione che siano gli altri a dover fare posto a chi non ne ha diritto. Eppure non si smorza la sensazione che tali pessimi comportamenti siano caratteristici di una determinata provenienza, fino a diventarne indelebile “marca culturale”. La diversificazione costa fatica, gli esempi contrari non fanno cronaca perché il marciume è troppo eclatante. Tornano in mente le proteste del quartiere in cui un ragazzo in motorino, privo di casco e documenti, è stato di recente ucciso da un poliziotto che gli aveva inutilmente intimato di fermarsi. Qualcuno ha provato a stemperare il degrado di quella forma di vita, oscurandola mediante il contrasto tra il “popolo”, per definizione oppresso, e lo “Stato”, per definizione oppressore. La costruzione di uno Stato dipende anche e soprattutto dalla quotidiana condivisione di comportamenti legali, eppure, parlando di certi luoghi, si tratta di una banalità che non viene neppure più percepita. Un poliziotto spara, in modo assurdo, e uccide: un alibi quasi perfetto. Intanto, nulla cambierà a causa di un morto e ci saranno altri morti ammazzati, magari per sbaglio. Pochi sono disposti ad ammettere che all'origine di simili grandi tragedie ci possano essere tante piccole meschinità, come quella di andare in motorino senza casco e documenti, non pagare il biglietto su un treno, oppure occupare con indifferente arroganza il posto assegnato ad altri)
Chiudo gli occhi per un po'. Quando li riapro, abbiamo superato da un pezzo Firenze, vedo un paese abbarbicato a una collina, delle mura antiche, una torre candita dalla luna. La pur sempre bellissima Italia che resiste. Chissà ancora per quanto.
Il treno arriva puntuale a Roma. Scendiamo. E' ancora buio, ma la stazione è già molto animata. Ci sono i primi gruppetti di persone che andranno alla grande manifestazione della CGIL, organizzata per contestare le politiche del lavoro del governo Renzi. Qui le proteste di massa hanno una cadenza rituale, tuttavia è insolito vedere una piazza di sinistra prendersela con un governo di sinistra, almeno sulla carta. Quel che conta è esprimere soprattutto la “rabbia”, seguita quasi sempre dall'aggettivo “impotente”. Una società sclerotizzata nelle proprie contraddizioni, ormai appagata dalla constatazione che certe linee di frattura, cristallizzate in differenze definite “antropologiche”, assicurino quanto basta per continuare a tirare un po' avanti. Ognuno immobile sulla propria sponda. Il sommesso canto della rassegnazione, intonato da Francesco sul treno, s'ingrossa e assume la dimensione di un coro. E' come un viaggio al termine della notte che non vuole terminare.
Quante volte è successo anche
Quante volte è successo anche a me di pensare (forse con un pó più di rabbia dentro): "Com'è triste confermare i nostri pregiudizi" - magari proprio quelli che avevamo cercato di confutare in precedenza...
Ich habe gestern im Zug von
Ich habe gestern im Zug von Trient nach Bozen einen Herrn auf ein Buch (La Grande Guerra - Gibelli) das er in der Hand hielt, angesprochen und sein erster Kommentar dazu war schon fast vorwurfsvoll: "Ma lei è di madrelingua tedesca? Allora è dell'altra parte!". Ich habe ihm geantwortet, dass die Toten keine "parte" kennen und es entstand doch noch eine angenehme Konversation. Der Herr war aus Brescia, hat schon in vielen Orten gewohnt (Belgien, USA, Rom und noch mehr) und lebt nun schon seit mehreren Jahren in Bozen. Hätte ich mich mit einem ersten Eindruck begnügt, hätte ich viel weniger in Erfahrung gebracht und wäre sicher von seinem Kommentar negativ beeindruckt gewesen. Dennoch eine schöne Erzählung, Gabriele, ich habe auch sehr schöne Erinnerungen von langen Zugfahrten in der Nacht, meistens Richtung Neapel.