Volevo fare il ricercatore
“Nelle università italiane, ha assicurato il ministro dell’istruzione Stefania Giannini in un’intervista pubblicata ieri, 17 ottobre, sul Corriere della sera, ogni anno entreranno 1.000 nuovi ricercatori”; è questo infatti uno degli obiettivi del cosiddetto piano “Buona università” del governo Renzi. Ma cosa significa fare ricerca oggi in Italia? Ce lo spiega Tanja Mimmo, ricercatrice e, dal primo ottobre scorso, professore associato alla Libera Università di Bolzano dove insegna chimica del suolo.
Mimmo, quali sono i suoi ambiti di ricerca?
Si possono dividere in tre: uno riguarda la nutrizione delle piante, cioè tutto lo studio sulla disponibilità dei nutrienti presenti nel suolo. Il secondo ramo riguarda l’autenticazione e la determinazione geografica dei prodotti agroalimentari; abbiamo peraltro sviluppato un metodo prezioso contro le frodi alimentari, che è cioè in grado di identificare e discriminare alcuni prodotti tipici dell’arco alpino, come mele, latte e formaggio, rispetto a quelli che provengono da altri parti d’Europa o del mondo. In questo ambito abbiamo anche ultimato un progetto europeo, “Original”, che andremo a presentare il 21 ottobre all’Expo di Milano. La terza area di studio è la valorizzazione delle biomasse.
Com’è la vita del ricercatore, oggi?
Difficile, il mondo universitario non garantisce più molte certezze per i giovani, i posti fissi sono sempre di meno. Io tuttavia sono sempre stata idealista, volevo fare la ricercatrice, ho perseverato e anche grazie a un po’ di fortuna sono riuscita a raggiungere il traguardo.
Dunque vale ancora la pena sognare la vita da ricercatore, ci sono opportunità di carriera per chi si accinge a seguire questa strada.
Assolutamente sì, abbiamo bisogno di queste figure, lo dico sempre anche ai miei studenti: non è una vita facile, i contratti durano perlopiù 6 mesi o un anno, ma è una professione che restituisce anche molto. Non bisogna cedere al cosiddetto pessimismo cosmico.
Qual è la situazione della ricerca all’estero rispetto all’Italia?
All’estero i finanziamenti sono sicuramente maggiori, dal momento che l’Italia, e soprattutto il ministero competente, da anni ha ridotto drasticamente i fondi. Invece in Germania e in Austria, ad esempio, come mi confermano i colleghi, lo Stato finanzia la ricerca, a partire da quella di base. Spesso, infatti, è la ricerca applicata a ricevere più denaro, mentre la ricerca di base, che è quella che avrebbe bisogno di un sostegno economico importante, in Italia non la finanzia nessuno. È una lacuna che va in qualche modo colmata.
Tanja Mimmo
Che strumenti hanno allora le università per trattenere un ricercatore che voglia andare a lavorare all’estero?
L’Italia in questo senso sta facendo purtroppo molto poco. Hanno varato anche la legge per il rientro dei cervelli ma concretamente il ritorno in patria è molto complicato perché le possibilità lavorative sono limitate, senza contare che all’estero spesso si hanno a disposizione strumenti e laboratori molto più avanzati di quelli italiani.
Ma la situazione non è così critica in Alto Adige?
No, infatti, rispetto ad altre realtà nazionali siamo notevolmente più avanti.
Crede che nei prossimi anni si possa sperare in un’inversione di tendenza, che cioè i cosiddetti cervelli in fuga facciano ritorno in Italia o è un’ipotesi poco plausibile?
Io spero vivamente che tornino. Ci vuole tuttavia anche uno sforzo per creare le condizioni favorevoli perché i ricercatori possano lavorare nel nostro paese.
Qual è il contributo che la ricerca può dare alla scuola?
Fare ricerca apre nuove visioni e prospettive utili nel momento in cui si trasmette il proprio sapere agli studenti, perché la didattica è per forza di cose in continua evoluzione e questo, per un ricercatore che insegna, è un grosso vantaggio. Un valore aggiunto, ecco.
Vi pregherei di sempre
Vi pregherei di sempre scrivere unibz e non più LUB.
"A unibz, di unibz, da unibz..."
Grazie e buona giornata, Mario Burg