So perfettamente, nel momento in cui mi accingo a scrivere queste poche righe, che chiunque, in questi giorni di sovraeccitazione, si provi a criticare, sia pur debolmente, il principio secondo il quale tutte le decisioni dovranno essere in futuro affidate, col sistema referendario, al giudizio inappellabile del popolo sovrano, rischia di essere pesantemente manganellato (anche se solo in senso figurato, per ora) dai pasdaran della democrazia diretta ad ogni costo. Ciò nonostante non vorrei rinunciare ad esporre alcune semplici riflessioni, partendo da un evento di cronaca avvenuto nei giorni scorsi a Bolzano.
Non c'era una gran folla, quel sabato pomeriggio, ad accogliere il presidente uscente della repubblica austriaca Heinz Fischer, che, nella sua visita di commiato ai "fratelli separati" sudtirolesi ha voluto visitare il percorso museale allestito nella cripta del monumento alla Vittoria di Bolzano. L'ora e la stagione non erano effettivamente delle più propizie, ma forse qualche rappresentante delle istituzioni in più ci sarebbe potuto essere, in considerazione del fatto che la visita di Fischer assumeva un carattere di grande importanza nello svolgersi delle contrastate vicende di quella che usiamo chiamare questione altoatesina. In effetti si è trattato del seguito ideale di un'altra visita del presidente austriaco in Alto Adige. Nel settembre del 2012, in occasione delle annuali celebrazioni per l'anniversario dell'Accordo di Parigi, il capo dello Stato austriaco venne ad incontrare, a Merano, il suo omologo italiano Giorgio Napolitano. Un incontro, un abbraccio, nel segno di una grande ritrovata concordia dopo decenni di contrapposizioni, del recupero dello spirito più autentico e più originale di quell'intesa firmata nella capitale francese nel 1946.
Il monumento alla Vittoria di Bolzano è stato per decenni il simbolo marmoreo del contrasto e della divisione tra le popolazioni conviventi in questa terra. Voluto da Benito Mussolini, nella forma dell'arco di trionfo romano, per simboleggiare il dominio italiano sull'Alto Adige, luogo eletto di tutte le cerimonie ufficiali nel ventennio, fu recuperato nel secondo dopoguerra come simbolo identitario della comunità italiana, con le fiaccolate notturne di missini, le deposizioni di corone il 4 novembre, il "presentat arm" dei reparti in grigio verde. Poi la lunga stagione delle contestazioni: da quella di Alex Langer a quella di un giovanissimo Franz Pahl che si incatenò alla cancellata per chiederne la demolizione. Quest'ultima richiesta divenne quindi il leitmotiv dei politici di madrelingua tedesca per molti e molti anni, mentre qualche giovincello venostano cercava di risolvere il problema alle spicce riempiendo di bombole di gas quegli stessi spazi che oggi ospitano la ricostruzione storica di ciò che il monumento è stato nelle vicende del novecento altoatesino.
Nell'infuriare della polemica iniziò però a farsi strada l'ipotesi di cercare una soluzione diversa da quella della contrapposizione frontale. Fu un cammino lungo, difficile, pieno di contrasti e di contrattempi, ma alla fine da quegli sforzi è nato il progetto con il quale, da un paio d'anni ormai, viene proposta ai bolzanini, agli altoatesini, a coloro che nel capoluogo arrivano come visitatori, una lettura diversa del monumento. Le colonne di marmo sono rimaste al loro posto sotto di esse figurano ancora le erme di Battisti, Filzi e Chiesa, ma un semplice anello luminoso segnala anche al passante più distratto che qualcosa è cambiato, lo indirizza verso il sotterraneo che ospita il percorso storico, le immagini, i documenti. Non è stato facile ed anche il giorno dell'inaugurazione, come sabato scorso, certe assenze pesanti (ricordiamo tra le altre quella dei politici bolzanini di madrelingua tedesca e di parecchi tra quelli del centrodestra italiano) stavano a ricordare che in una realtà come quella altoatesina le suggestioni dello scontro nazionalistico non sono mai sopite. Il monumento "storicizzato" tuttavia esiste e resiste e il fatto stesso che un Capo dello Stato austriaco, sia pure ormai all'epilogo del suo mandato, abbia voluto varcarne la soglia resta un fatto di grande importanza.
Vale la pena, allora, di ricordare sommessamente che i politici, italiani e tedeschi, che per questo risultato si sono impegnati, avrebbero potuto comportarsi anche diversamente. Il presidente della provincia Luis Durnwalder e gli altri esponenti della SVP provinciale (sull'atteggiamento dei rappresentanti bolzanini del partito, come già detto, rimangono notevoli perplessità) avrebbero potuto molto più comodamente evitare di andare ad infilarsi in un'impresa così scomoda, che garantiva loro ben pochi benefici in caso di successo e la sicurezza dei furibondi attacchi di tutti gli avversari della destra sudtirolese e di qualche compagno di partito in caso di riuscita. Avrebbero potuto insistere sulla richiesta di demolizione del monumento, ben sapendo che ad essa non si sarebbe mai giunti, dato che l'arco marmoreo di Piacentini continua a figurare tra i beni dello Stato. Avrebbero potuto persino, per coprirsi le spalle, affidare la decisione ai cittadini con un bel referendum, sull'esito del quale, mi si permetta, non nutro il minimo dubbio. Messi di fronte all'interrogativo secco sul mantenere o abbattere il simbolo principale del ventennio, i sudtirolesi non avrebbero potuto che rispondere in una sola maniera
E i politici italiani? I due sindaci e gli assessori comunali e provinciali che al progetto hanno lavorato in questi anni, avrebbero anch'essi potuto limitarsi all'ordinaria gestione dell'ennesima questione etnica, trincerandosi dietro la mancanza di competenza diretta e magari avrebbero potuto giocare anch'essi la carta vincente di una bella consultazione popolare, a livello cittadino naturalmente, per chiedere ai bolzanini il permesso di metter mano all'arco marmoreo. In questo caso il precedente del referendum sul cambiamento del nome della piazza che circonda il monumento ci dice con assoluta certezza quale sarebbe stato l'esito.
In questo caso alcuni politici di lingua tedesca e di lingua italiana non hanno scelto la strada più comoda, non hanno ceduto alla tentazione di voltare le spalle al problema e magari di celare le proprie mancanze affidandosi al voto popolare. Si sono assunti le loro responsabilità, sono andati avanti ad onta di tutte le critiche e di tutti gli oppositori. È un bell'esempio di quella politica che diviene mediazione intelligente e aperta al futuro rispetto al suggestivo richiamo di un passato fatto di divisioni e rancori. E, come detto, se a decidere fossero stati, in ossequio al dogma della democrazia diretta, i cittadini a questo risultato non si sarebbe probabilmente mai arrivati.
Vogliamo affermare con questo che la consultazione popolare e diretta è fonte unicamente di sbagli e di pericoli?. Anche solo pensarlo significherebbe ripiombare, sia pure con segno opposto, in quel dogmatismo talebano, che oggi appartiene proprio a chi invoca il referendum come panacea per ogni male della società, pensandolo in realtà come strumento essenziale per scardinare i principi della democrazia basata sulla delega e/o come artifizio demagogico per soddisfare il furore di un popolo che, dal canto suo, ha tutti i motivi per non fidarsi più di una classe politica con la quale ha perso ogni forma di contatto. Ed allora l'esempio del monumento alla Vittoria ci insegni che esistono questioni che, per la loro natura, per la loro complessità, per i carichi di emozioni antiche che evocano, hanno bisogno per essere affrontate di tempi lunghi, grandi capacità di mediazione, intelligenza e cultura. Ingredienti preziosi che solo il vecchio metodo della democrazia rappresentativa può ancora mettere nella stessa pentola.