In Alto Adige, con l'eccezione di due lodevoli iniziative del circolo culturale Gaismayr e del Teatro Stabile, è passato praticamente sotto silenzio il centesimo anniversario dell'impiccagione di Cesare Battisti nella fossa del Castello del Buonconsiglio di Trento. Non è bastato un secolo, dunque, per dissipare quell'aria di imbarazzata indifferenza che da sempre circonda il personaggio-Battisti. Un sentimento che, va chiarito subito, non nasce, come verrebbe comodo pensare, dalle circostanze della sua morte, ma da ciò che egli fu durante il suo percorso politico e culturale, negli anni precedenti la guerra.
Gli austriaci che mandarono alla forca Battisti, bisognerà pur avere il coraggio di dirlo prima o poi, fecero quello che in analoghe circostanze avrebbero fatto, in quegli anni di guerra, tutti i paesi e tutti gli eserciti. La prima guerra mondiale, molto più della seconda a dire il vero, fu contrassegnata dall'esercizio di una spaventosa violenza non solo e non tanto verso il nemico armato della trincea di fronte, ma soprattutto verso i propri soldati. Non ci fu pietà per i disertori e per chi decideva, animato da sentimenti più o meno nobili, di cambiare schieramento. La repressione più dura e selvaggia fu il pane quotidiano di milioni di uomini in divisa. Esiste in proposito una letteratura sterminata. La ferocia fu il tratto distintivo con cui vennero gestiti gli eserciti a prescindere dalle divise. Così in Francia, così nella Germania del Kaiser, così nella Russia zarista dove i soldati venivano trattati come carne da macello. La pietà e la moderazione erano sentimenti del tutto sconosciuti e chiunque fosse anche solo sospettato di simpatie per il nemico veniva liquidato senza troppi complimenti. Gli italiani poi sono gli ultimi a poter parlare. Nell'esercito di Luigi Cadorna si finiva davanti al plotone di esecuzione per molto meno di un sospetto di intelligenza con il nemico. Bastava aver protestato per le infime condizioni di vita, per il totale disprezzo dell'esistenza umana su cui era basata intera catena di comando.
Battisti dunque finì vittima di un meccanismo che in quegli anni funzionava in quel modo su tutti i fronti e in tutti i paesi. Al boia austriaco si può al massimo rimproverare un eccesso di zelo nell'eseguire la condanna e un'esposizione mediatica, con un reportage fotografico sovrabbondante, cosa che fini per avere un effetto opposto a quello sperato.
Se il nome di Cesare Battisti affiora svogliatamente nel dibattito storico politico dominato ancora purtroppo, in Alto Adige, dai sedicenti patrioti, nuovi epigoni dei vecchi nazionalisti di ambedue gli schieramenti, non è per la sua triste fine e forse nemmeno per l'uso che del suo martirio fece il fascismo consacrandolo a forza come eroe dell'italianità imposta a queste terre. No, Battisti dà fastidio per un paio di caratteristiche che ebbe nel suo purtroppo breve transito umano.
Era, innanzitutto, un socialista. Questo significa che, negli anni a cavallo tra l'otto e novecento, la sua fu una delle voci che si alzarono, nel vecchio Tirolo di allora, per denunciare l'infame sfruttamento cui era sottoposta una buona parte della popolazione per assecondare l'avidità e la smania di profitto di una ristretta classe dominante. Non è affatto casuale che quella classe dominante fosse anche quella che agitava già allora le bandiere del nazionalismo, soprattutto di quello di stampo pangermanista, usandolo come strumento per deviare la disperazione e la rabbia dei nullatenenti verso altri obiettivi che non fossero quello del riscatto sociale. Battisti fu uno di coloro che contro questa situazione si batterono in maniera convinta e continua. Non era, per indole un rivoluzionario estremista, ma la sua guerra contro i capitalisti e gli sfruttatori che riducevano alla fame una parte non indifferente dei tirolesi di allora fu di una durezza implacabile e basterebbe scorrere le pagine del suo giornale, il "Popolo ", per rendersi conto di quanto aspra fosse la lotta e di quanto potenti fossero i nemici contro i quali lo metteva la sua ansia di giustizia sociale. Si sa che, allora come oggi, l'invenzione di un nemico esterno e il nazionalismo feroce mascherato da patriottismo sono gli strumenti con i quali la classe al potere ha cercato di impedire che il popolo degli oppressi potesse prendere coscienza della propria situazione e lottare per cambiarla.
Il Battisti socialista di questa realtà è uno dei testimoni più autorevoli e proprio per questo anche solo il parlarne, il raccontarlo alle giovani generazioni è motivo di acre fastidio per chi continua a sostenere la favoletta per la quale nel vecchio Tirolo si viveva nel migliore dei mondi possibili. Battisti, poi, è ancor più imbarazzante per il fatto di essere stato un socialista in parte pentito. Come tutti marxisti in quell'epoca fu in origine saldamente convinto che la solidarietà attiva tra le masse proletarie dei vari paesi sarebbe divenuta uno strumento operante per scardinare le barriere tra i popoli di lingua e cultura diversa. "Proletari di tutto il mondo unitevi" recitava lo slogan di quegli anni e l'illusione che tutto ciò fosse possibile aleggiò per lunghi anni sul capo di quei rivoluzionari di professione che, perseguitati sino alla morte nei singoli paesi, si riunivano più o meno clandestinamente in qualche angolo d'Europa per sognare e progettare un mondo completamente diverso. Diversa fu anche la realtà nella quale si trovarono a dover operare e Cesare Battisti se ne accorse, tra i primi forse, quando dovette fare i conti con l'impetuosa affermazione del nazionalismo pan-tedesco nel Tirolo dove aveva iniziato a muoversi in campo politico.
Cesare Battisti che muore impiccato nella fossa del castello è ormai un irredentista ultra convinto della necessità di restituire il Trentino all'Italia, ma non era sempre stato così. Anch'egli come diversi altri politici della sua terra, fu protagonista, nei primi anni del novecento dell'ultimo serio tentativo di dare al Trentino, attraverso la concessione di una reale autonomia, la possibilità di inserirsi dignitosamente nel tessuto connettivo del grande impero multinazionale governato da Vienna. Il dibattito sull'autonomia del Trentino si sviluppa per tutta la seconda metà dell'ottocento e approda nel nuovo secolo sino a lambire gli anni della catastrofe bellica. È una richiesta che viene avanzata coralmente da tutte le componenti della società locale. Ci sono, è vero, coloro che guardano unicamente alla possibilità di un'annessione allo stato italiano, ma è un'ipotesi politica che dopo l'esito disastroso della terza guerra d'indipendenza e la stipula, qualche anno dopo, della triplice alleanza tra Roma, Vienna e Berlino, acquista il carattere dell'assoluto utopia. Ci si risolve dunque a puntare su una serie di misure che garantiscano alla parte più meridionale del Tirolo la possibilità di fare le proprie scelte autonome, svincolandosi, almeno in parte, dalla regia di Innsbruck. È proprio dal capoluogo tirolese che parte la controffensiva del mondo di lingua tedesca che mira a demolire alla radice anche solo l'ipotesi di concedere una qualsivoglia autonomia al Trentino italofono. È una guerra durissima, che raggiunge il culmine nel 1904 quando l'intero apparato di potere e di stampa scatena la feccia pangermanista riuscendo ad impedire che presso l'università di Innsbruck si apra, come concesso da Vienna, una sezione in lingua italiana. È una scacchiera sulla quale, si badi bene, non si muovono solo di estremisti delle organizzazioni antitedesche o gli studenti educati alla scuola del nazionalismo. A bloccare tutte le richieste trentine è l'intero apparato di potere risalente ai partiti liberal nazionale ed anche cattolico. Il Tirolo tedesco è in mano per decenni a forze politiche determinate a schiacciare la presenza italiana e a procedere quanto più possibile ad una tedeschizzazione del Trentino. Solo la prudenza delle autorità viennesi, ben consapevoli dei pericoli insiti in uno scatenamento delle pulsioni nazionaliste per la sopravvivenza di un sistema politico così composito come il loro, blocca entro certi limiti, la calata verso sud del nazionalismo tedesco. Di questi fatti, delle violenze del 1904, del totale rifiuto di accettare ogni forma di autonomia per la componente italiana del Tirolo, Cesare Battisti è testimone. Capisce in quei giorni che per i tirolesi di lingua italiana non esiste speranza di poter sopravvivere nell'ambito di un impero che si avvita progressivamente in una spirale di resa ai ricatti e alle violenze dei nazionalismi. Qui avviene probabilmente la conversione definitiva al progetto irredentista, l'inizio di un lungo percorso destinato a portare lo studioso e politico Trentino, attraverso adesione all'interventismo, sino alla convinta partecipazione alla guerra.
In questo senso Cesare Battisti è uno dei personaggi chiave del duro conflitto che oppone italiani e tedeschi, nelle terre del vecchio Tirolo, dalla seconda metà dell'ottocento sino allo scoppio della guerra. È un capitolo di storia del quale, in Alto Adige, si parla poco e malvolentieri. Esiste da sempre una sorta di santa alleanza sotterranea tra i politici nazionalisti delle due parti e gli storici, sedicenti tali, che procurano loro le munizioni con cui imbastire la sempiterna polemica tra italiani e tedeschi. Fa comodo a tutti far credere che la storia cominci il 4 novembre del 1918. Per gli italiani è il giorno nel quale si realizza quella vittoria militare, bagnata, come sempre si affrettano a precisare, dal sangue di 600.000 caduti, che costituisce il titolo unico e incontrovertibile sul quale si basa il diritto italiano a possedere l'Alto Adige. Per la cultura nazionalista dominante in campo tedesco si tratta semplicemente di giustificare tutto e tutti con il terribile trauma della separazione dalla madrepatria, cancellando con un colpo di spugna di aspri conflitti, l'odio, il veleno nazionalistico sparso a piene mani sulle terre del vecchio Tirolo nei decenni precedenti.
Di questa "storia dimenticata" (non certo dagli storici professionisti che continuano invano a raccontarla nei loro saggi e nei loro libri, ma dalla "vulgata" nazionalistica che troppo spesso in Alto Adige diventa l'unica verità di regime) Cesare Battisti è un testimone chiave, una delle figure più rappresentative . Rievocarne l'azione e il pensiero sarebbe quindi sin troppo imbarazzante. È un testimone scomodo che non può essere liquidato al pari di un nazionalista come Ettore Tolomei. Meglio quindi voltargli le spalle lasciarlo nella sua dimensione di martire, imprigionato nella pietra del monumento piacentiniano. Fa comodo a molti, non alla verità sulla storia di questa terra che prima o poi bisognerà pur cominciare a raccontare a coloro che la abitano.