Imparare a viaggiare da soli
Una volta il 15 d’agosto le città si svuotavano, era il giorno morto, il tempo morto, “bianco di una luce vasta” (Valerio Magrelli), appena screziato dalla macchina guidata da Bruno Cortona, pagliaccio tipico d’Italia (con finale tragico) alla ricerca di qualcosa da fumare, una sigaretta, ma bastava anche un mozzicone (“hiii questa la recupero…”). Altrove invece le terme della memoria, per chi se lo poteva permettere: erano serate di corse di cavalli, al fresco, la bibita della marchesa e guarda che belli i marchesini, terrazze, luna, e un po’ di Chopin dalle finestre. Si poteva imparare a viaggiare anche stando fermi, Voyage autour de ma chambre, perché a Natale si regalavano ancora gli atlanti, o i libri di viaggi, senza avere l’assillo di prenotazioni all inclusive e ancora prima che google maps e le apps ci rivelassero dove saremmo esattamente finiti (l’esattezza che pietrifica il vago, cioè il bello della sorpresa). Erano valige pesanti, ma subito sbrigate da numerosi facchini, mentre oggi il sogno è quello di un trolley da trainare con un solo dito. Ferragosto in mezzo all’estate, davanti ancora un mese e mezzo di vacanza, oggi purtroppo rattrappita a pochi scampoli di giorni, bagnati da temporali privi di poesia, orrendo weekend lungo (orrenda formula), e già assediato dalle prime riunioni, dagli sms dei colleghi, le loro cartoline su facebook (ma si chiamano post e si scrivono col telefonino) con su scritto “ancora qualche immagine da Formentera, tra poco torniamo, tra poco ci rivediamo…”.
Che libri vi siete portati in vacanza? Non molti, suppongo. E di vera carta, che poi magari arriva l’onda e s’inzuppano, manco l’ombra. Ma parlando di viaggi (fatti o sognati, scritti o parlati), è interessante aprire “L’odore dell’India” di Pier Paolo Pasolini, un reportage scritto dopo il suo primo soggiorno indiano, nel 1961, in compagnia di Elsa Morante e Alberto Moravia. La contrapposizione tra l’attitudine al viaggio (ma anche alla cultura e alla vita) espressa da Moravia e Pasolini non potrebbe essere più netta. Composto, scientifico, assennato il primo – e dunque mai oltre i confini assegnatisi da un disciplinato “vedere per conoscere” –, vorace, ignaro, dissipatore di ore notturne il secondo, per il quale l’unico modo di entrare davvero in contatto con i nuovi paesaggi era consegnarsi ancora una volta ad una sorta di solitudine errabonda: “Io avevo voglia di stare solo, perché soltanto solo, sperduto, muto, a piedi, riesco a riconoscere le cose”. Un metodo, anzi il metodo, adottato da Pasolini e destinato davvero a pochi altri, giacché quasi nessuno ormai viaggia per “riconoscere le cose”, quanto piuttosto per metterle a distanza, tenerle a distanza (solo vederle, per l’appunto e non addentarle), confezionate e riprodotte in teche sterilizzate, che non faranno mai male a nessuno e non illumineranno nessuno (anche se verranno fotografate e riprodotte ovunque).
Ho sempre provato un’ammirazione profonda per chi riesce a viaggiare da solo. La calma di fare i preparativi senza condividere con parenti o amici la preoccupazione che li riguarda, l’essere costretto (ma deve trattarsi di un piacere, quindi la parola costrizione è certo inadeguata) ad interloquire con gli estranei più di quanto si farebbe potendo contare su una cerchia di persone note, e assegnare a se stessi il ritmo del proprio viaggiare, scavando in se stessi (come farebbero le mani di un bambino nella sabbia) spazi di solitudine in cui ritrovarsi. Alla fine sentendo meglio la propria voce, e quella degli altri. Viaggiare da soli, anche a Ferragosto, quando sembra che nessuno lo faccia, e chi è solo, invece, lo è perché è rimasto a casa.
Bello! Ed oggi, più che mai,
Bello! Ed oggi, più che mai, servirebbe viaggiare - anche nel proprio rione - riducendo le distanze che i tempi cercano di imporci... altro che "vacanze"..