baccalà e polenta
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Politik | Avvenne domani

Il marketing del baccalà

La Giunta Provinciale tenta di fare il lifting all'autonomia altoatesina, ma un po' di fondotinta potrebbe non bastare.

La storiellina, più che risaputa, racconta di un vicentino poco avvezzo alle prelibatezze culinarie, indotto infine ad accostarsi, in un giorno di festa, al tavolo di un prestigioso ristorante locale. Dopo aver scelto dal menu un piatto dal nome immaginifico, "pesce veloce del Baltico poggiato su un pasticcio di mais", si trovò mangiare null'altro che quella polenta e baccalà che costituiva la sua dieta quotidiana dai tempi dell'infanzia. Se ne lamentava dunque con gli amici all'osteria, denunciando a voce alta i tranelli delle moderne tecniche di comunicazione.

Torna alla mente, la storiella, nel leggere il comunicato provinciale sul nuovo assetto e soprattutto sui nuovi compiti attribuiti al vecchio Ufficio Stampa della Provincia Autonoma di Bolzano, ora ribattezzato Agenzia di stampa e comunicazione, dotato di un nuovo responsabile, Marco Pappalardo, e soprattutto investito di una gravosa "mission", come si usa dire oggidì: quella di, citiamo testualmente dal comunicato ufficiale, "rafforzare l'immagine dell'autonomia altoatesina verso l'esterno".

Inutile negarlo: questo è il momento storico nel quale, anche da noi, le istituzioni tendono, come qualche signora un po' agée, a rivedere il proprio aspetto esterno con qualche opportuno lifting. È di pochi giorni fa, come si ricorderà, un'analoga decisione presa in Consiglio Provinciale. Anche lì si è optato per rinforzare il vecchio servizio stampa e soprattutto per incaricarlo di provvedere con maggior solerzia a diffondere una migliore immagine dell'Assemblea e del suo Consiglio di presidenza.

Tornando alla Provincia,  che l'obiettivo sia quello di giocare la carta dell'immagine e del marketing aggressivo  risulta più che chiaro proprio dalla scelta  fatta  per l'incarico di responsabile e che, come ampiamente prevedibile, ha già sollevato un putiferio di polemiche. A far discutere non c'è  solo il fatto che il nuovo dominus della comunicazione provinciale non ha in tasca la tessera di giornalista, ma anche il fatto che, secondo diverse opinioni, tra comunicazione e cura dell'immagine di un'istituzione una certa differenza c'è.

Sospettiamo peraltro, conoscendolo da diversi anni,  che il nuovo responsabile della comunicazione altoatesina sappia benissimo che restaurare il traballante concetto dell'autonomia altoatesina sarà impresa lievemente più difficile rispetto a quella di valorizzare le bellezze turistiche naturali che rientrava sino a ieri tra i suoi compiti. Anche perché, ad ogni tramonto, le Dolomiti ci mettono del loro per far bella figura e giustificare il bollino UNESCO. Non altrettanto si può dire dei testimoni politici dell'autonomia. L'impresa si presenta dunque assai complessa.

Per capirci meglio occorre, come sempre, fare un piccolo passo indietro.

Per moltissimi anni, nello svolgersi della nostra recente storia altoatesina, quello dell'immagine dell'autonomia è stato un problema inesistente. Prima perché l'autonomia proprio non c'era, poi perché ve n'era una che non piaceva quasi a nessuno, infine perché quella attuale era troppo giovane per aver bisogno di rifarsi il trucco. Il problema comincia a manifestarsi a metà degli anni 80 quando, nel languire del processo di attuazione della seconda autonomia, con il ridestarsi dei bombaroli, sempre intenzionati a mandare a carte quarantotto ogni possibile pacifica intesa, nell'opinione pubblica italiana ed in parte anche in quella europea si fa strada la convinzione che una questione considerata già pacificamente risolta si stia clamorosamente riaprendo. Come oggi del resto, anche allora c'era chi addossava ogni responsabilità alle rigidità da parte sudtirolese nell'esigere un'attuazione dell'autonomia ben più ampia di quella originariamente prevista e chi invece puntava il dito contro il centralismo italiano, poco disponibile a concedere quanto richiesto e concordato. La novità, però, è che per la prima volta il problema viene affrontato anche sul piano delle pubbliche relazioni. Prende il via, in quegli anni, una complessa operazione che prevede contatti periodici e ravvicinati con i rappresentanti della stampa italiana ed estera, viaggi di informazione in Alto Adige, momenti di incontro con i massimi responsabili della politica altoatesina.

Il progetto sembra avere successo anche perché la sua attuazione va a coincidere temporalmente con la chiusura, dopo mille esitazioni ritardi, della vertenza internazionale. La questione altoatesina è chiusa e l'intesa, santificata dal rilascio in sede ONU, della famosa quietanza liberatoria apre le porte ad un periodo nel quale un po' tutti fanno a gara nel presentare quello altoatesino come il modello ideale per la soluzione delle questioni legate alle minoranze linguistiche. Non c'è bisogno di un gran lavoro, in quegli anni, per dar lustro all'immagine dell'autonomia provinciale altoatesina. Per studiarne i meccanismi arrivano giornalisti, politici e tecnici della pubblica amministrazione un po' da mezzo mondo. Un coro di lodi recitate con toni così alti da rendere forse un po' sordi i  responsabili politici locali rispetto ai primi sinistri scricchiolii che annunciano un peggioramento marcato della situazione.

Il tema sul quale l'autonomia altoatesina vede offuscarsi rapidamente, nel corso degli ultimi vent'anni, l'immagine quasi trionfante che aveva è sicuramente quello dei rapporti finanziari con lo Stato. L'elemento scatenante, paradossalmente, è stato l'affermarsi in campo nazionale di un regionalismo sempre più marcato, con i poteri locali in perenne conflitto con quello centrale per ottenere nuove competenze ma soprattutto per poter contare su trasferimenti finanziari certi e cospicui. Sino a  un certo punto il meccanismo ha funzionato senza troppi problemi, ma con la grande crisi economica e con la conseguente adozione di politiche di rigoroso contenimento della spesa pubblica, la differenza tra le regioni "ordinarie", sottoposte senza potersi troppo ribellare ai tagli decisi da Roma, e quelle "speciali" molto più garantite, è divenuta ogni giorno di più sin troppo evidente. La pretesa di Bolzano di chiamarsi fuori, in grazia della propria particolarità internazionalmente garantita, da qualunque dibattito sull'argomento ha fatto il resto. I bilanci miliardari di Bolzano, le provvidenze garantite ai suoi cittadini e ai suoi operatori economici, tali da relegare al ruolo di parenti poveri quelli di zone vicine, separate solo da un confine amministrativo, hanno alimentato un crescente fuoco di fila di polemiche.

Sarebbe assolutamente illusorio, però, cercare di capire la questione senza inquadrarla in un contesto più generale che è quello caratterizzato dalla storica assenza di una cultura delle autonomie nel sistema politico italiano. Nel rileggere, come sta facendo chi scrive, la storia della questione altoatesina dal 1918 oggi attraverso il filtro dei dibattiti parlamentari, risulta assolutamente evidente un dato: l'Italia non aveva allora e purtroppo non ha nemmeno oggi un concetto chiaro e definito di ciò che devono e possono essere i rapporti tra il centro e la periferia. Uno stato nato dalla forzata fusione di realtà politiche storicamente molto diverse, è vissuto per molti decenni con l'imperativo categorico di annullare le differenze, di omogeneizzare il più possibile ciò che omogeneo assolutamente non era. È una situazione che si prolunga anche nel primo dopoguerra e che condiziona pesantemente  il  rapporto con una realtà assolutamente nuova come quella della presenza entro i confini nazionali di una forte minoranza linguistica, quella sudtirolese. A risolvere la questione, spazzando via ogni ipotesi di nuove costruzioni autonomistiche, arriva il fascismo che porta al massimo grado il centralismo dei prefetti e dei podestà. La questione si ripropone nel secondo dopoguerra e l'architettura costituzionale rispecchia in pieno le indecisioni, i dubbi di un ceto politico e intellettuale che sente confusamente di dover in qualche modo riconoscere le varie particolarità di un paese come l'Italia, ma al tempo stesso diffida profondamente  di  un percorso che si allontani dal tradizionale, rassicurante centralismo. Ecco dunque la doppia scelta: da un lato un sistema regionale "ordinario" che resterà per decenni inattuato e dall'altro la nascita delle "speciali", concepita ognuna come risposta ad un'emergenza diversa e particolare: il separatismo siciliano, l'arretratezza dell'isolamento della Sardegna, l'attrazione fatale degli aostani verso la cultura francese, il tragico e sanguinoso conflitto per Trieste sui confini orientali. Ed infine l'autonomia regionale, voluta da Degasperi per prolungare nel secondo dopoguerra un progetto politico concepito a Trento ancora ai tempi dell'Imperial Regio Governo e poi fallito per la sorda opposizione del nazionalismo pangermanista.

La realtà è che anche durante i decenni più recenti le sorti del dibattito regionalista e autonomista nell'Italia repubblicana sono più legate agli umori politici del momento che a una seria riflessione di carattere istituzionale. Negli anni 70 le regioni ordinarie diventano il banco di prova delle capacità di governo di una classe politica locale che spesso si rivela assolutamente impreparata alla bisogna. In tempi più recenti l'affermarsi, nelle terre del nord, di un vigoroso movimento a carattere secessionista impone emergenze alle quali si crede di far fronte, da parte di una classe politica in molti casi confusa, che scambia l'autonomismo con il federalismo, con una serie di riforme costituzionali gettate sul tavolo solo per parare il colpo del leghismo rampante, ma che finiscono per creare un rapporto sempre più conflittuale tra i vari livelli dell'amministrazione pubblica.

E il vento cambia.

Gli stessi esponenti politici che, un decennio fa, erano pronti ad immolarsi sull'altare del decentramento, oggi, fiutati gli umori popolari, sparano ad alzo zero contro gli sprechi degli enti locali, invocandone l'abbattimento radicale, senza se e senza ma. Tra i bersagli più facili da colpire, in questo tirassegno politico, i privilegi presunti o reali delle autonomie speciali, gli stipendi dei presidenti e dei consiglieri. A sparare uomini politici di varia estrazione, ma le armi e le munizioni sono non di rado fornite con dovizia dai bersagli stessi. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla vicenda dei vitalizi dei consiglieri regionali del Trentino Alto Adige, che continua a riempire le cronache locali,ma che, facilmente, tracima anche sugli organi di stampa nazionali con effetti devastanti nei confronti di un'opinione pubblica già maldisposta di suo.

Ed allora occorre esser chiari. Pensare che il rapporto abbondantemente compromesso tra l'autonomia altoatesina e il resto d'Italia possa essere restaurato con un maquillage di facciata, per quanto abile, è profondamente illusorio. Non c'è campagna di stampa, per quanto ben organizzata, che possa cambiare i dati di una realtà nella quale il dibattito deve spostarsi dagli estremismi verbali dei talkshow, ad una discussione molto concreta sul piano politico istituzionale, un tavolo al quale nessuno, che provenga da Roma o da Bolzano, può sedersi con l'arrogante sicurezza di avere tutte le ragioni e nemmeno un torto.

Altrimenti  ci si può limitare a cambiar nome alla polenta e baccalà, ma sapendo bene che poi, all'osteria, qualcuno alzerà la voce.

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luigi spagnolli Mo., 27.03.2017 - 12:08

Abbastanza condivisibile tutto; trovo però molto limitante ricondurre tutto alla dabbenaggine o ai cambi di opinione dei politici in funzione del vento che tira, soffiato dall'opinione pubblica prevalente. Il grande problema di fondo è quello dei costi pubblici: dove lo Stato, e le amministrazioni centrali che da esso derivano, sono responsabili di quasi 3/4 della spesa pubblica nazionale complessiva. Siccome però nessuno sa esattamente dove questi soldi finiscano - il bilancio dello Stato, al contrario di quello del Comune o della Provincia, è incomprensibile per un non addetto ai lavori -, l'opinione pubblica, ed i media che ne sono i moltiplicatori, si concentra su alcune voci ad alto risalto emotivo delle spese degli enti locali, e non ha mai la possibilità di riflettere sulla spesa pubblica globale. È infatti del tutto probabile che, se si potesse in qualche modo calcolare la spesa pubblica totale (dello Stato + della Regione + della Provincia + del Comune) relativa a un territorio, si scoprirebbe che dove ci sono le autonomie speciali tale spesa pubblica totale è nettamente minore che altrove, perché i costi dello Stato sono molto più bassi. Ma non è dato saperlo: e allora investiamo sull'immagine, con le criticità elencate da Maurizio Ferrandi, e con la certezza che servirà a poco. D'altronde dalla politica oggi non si può pretendere molto di più: ma i giornalisti d'assalto, quello che un tempo scoperchiavano le questioni scomode, dove sono finiti?

Mo., 27.03.2017 - 12:08 Permalink
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OSCAR DANIELE Mo., 27.03.2017 - 18:29

L' autonomia mostra alcune criticità, il rapporto tra la qualità/costo dei servizi , il costo della vita qui rispetto ad altre aree del Paese e il rapporto tra gruppi etnici .
Vivere sullo stesso territorio non vuol dire convivenza.
Non ci sono rapporti tra i gruppi si ha quasi la paura di incontrarsi di "aiutarsi a comprendere le ragioni o i l sentimento dell'altro"

Mo., 27.03.2017 - 18:29 Permalink