La decisione di Matteo Salvini di non consentire l’approdo in un porto italiano della nave Aquarius con 629 migranti a bordo, di cui 123 bambini, minori non accompagnati e donne incinte, ha suscitato nell’opinione pubblica uno scontro violentissimo. Sulla base di quali argomenti? Da un lato si afferma il principio umanitario per cui il soccorso a persone in balia del mare è un obbligo morale oltre che giuridico, dall’altro si rivendica il diritto di rifiutarne l’accoglienza in nome della sovranità nazionale e della necessità di rinegoziare con i partner europei gli accordi che regolano la gestione dei flussi migratori. Non ho osservato, né sul piano strettamente politico né su quello del dibattito pubblico e mediatico, alcun intento di gettare luce sulle cause reali delle ondate migratorie. Come si trattasse di un fenomeno paranormale.
I fautori della chiusura delle frontiere ripetono a ogni occasione che solo una percentuale relativamente piccola di migranti che arrivano in Italia possiede i requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato. Premesso che se alla figura giuridica dell’asilo politico si aggiungono quelle della protezione sussidiaria e del permesso di soggiorno per motivi umanitari la percentuale complessiva di aventi diritto ad essere accolti sale all’incirca al 40 %, il discorso pubblico incentrato sulla concessione dell’asilo politico soltanto a una minoranza dei richiedenti sottintende che i cosiddetti migranti economici non abbiano alcuna legittimità a venire da noi. Come dire, la guerra o la persecuzione politica o la discriminazione etnica sono ragioni legittime per fuggire dal proprio paese, mentre la fame e la miseria e la mancanza di prospettive per sé e i propri figli non lo sono. Come si è arrivati a questa aberrazione? Non sarà che riconoscerla come tale significherebbe volgere lo sguardo alle cause economiche che hanno affamato interi continenti? E che ciò solleverebbe domande di cui fatichiamo a sopportare la risposta?
Non sarebbe possibile riassumere in un articolo la complessità dei meccanismi che hanno portato più di un miliardo di persone in tutto il mondo a vivere sotto la soglia di povertà, si può però forse provare a tratteggiarne brevemente i lineamenti generali. Dopo che nel periodo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale agli anni ’60 larga parte dei paesi più poveri si erano liberati dalla dominazione coloniale, i governi dei nuovi stati, almeno formalmente indipendenti, investirono massicciamente nella produzione di monocolture commerciali d’esportazione come il caffè, il cacao, il tabacco, il tè, lo zucchero, il cotone e la frutta tropicale, aprendo le porte alle multinazionali dei paesi industrializzati ed esponendo le proprie economie alla speculazione finanziaria. Il crollo dei prezzi agli inizi degli anni ’80 aumentò esponenzialmente il debito dei paesi produttori costringendo i loro governi a rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale, che elargirono crediti a tassi da strozzinaggio e imposero riforme durissime come il taglio drastico della spesa pubblica (sanità, istruzione, indicizzazione dei salari) e la liberalizzazione del sistema bancario (con l’effetto di dirottare gran parte del credito verso le grandi compagnie straniere e di strangolare i piccoli agricoltori locali). Risultato? Abbandono delle terre, esplosione demografica dei centri urbani, disoccupazione di massa, impoverimento generalizzato.
Perfino le politiche più illuminate presentano l’innegabile limite di gestire un’emergenza senza affrontarne le cause strutturali. Tuttavia, pensare di risolvere un fenomeno di tale portata incrementando gli aiuti allo sviluppo nei paesi d’origine dei migranti è altrettanto illusorio.
Il fenomeno è certamente complesso, ma la verità è una sola: quei paesi li abbiamo distrutti noi. Noi ne abbiamo saccheggiato le risorse, noi abbiamo imposto riforme economiche devastanti a esclusivo vantaggio delle nostre bilance commerciali e delle nostre multinazionali, noi abbiamo prodotto ed esportato le armi con cui si combattono guerre di cui ignoriamo perfino l’esistenza. E ora che a centinaia di migliaia scappano da quei luoghi per cercare una vita migliore nei paesi che li hanno depredati, ci indigniamo se ce li ritroviamo qui a chiedere un pasto caldo e a dormire disordinatamente nei nostri giardinetti. O perfino a reclamare diritti.
Soluzioni? Le misure per l’accoglienza e l’integrazione vanno indubbiamente potenziate e forse varrebbe la pena cercare il confronto con paesi come la Svezia e la Norvegia che in proporzione al numero di abitanti hanno accolto una quantità di rifugiati ampiamente superiore all’Italia e senza che questo diffondesse pestilenze xenofobe su vasta scala. Eppure, perfino le politiche più illuminate presentano l’innegabile limite di gestire un’emergenza senza affrontarne le cause strutturali. Tuttavia, pensare di risolvere un fenomeno di tale portata incrementando gli aiuti allo sviluppo nei paesi d’origine dei migranti è altrettanto illusorio. Piaccia o meno, in un sistema produttivo basato sul libero mercato la crescita economica è un paradigma inamovibile. Infatti, un paese industrializzato che cresce solo dell’1 % è già considerato in stagnazione (il continuo aumento della produttività, sotto la spinta della concorrenza e della competitività, permette di produrre la stessa ricchezza impiegando meno forza lavoro), mentre lo 0 % di crescita è sinonimo di recessione con conseguente calo dei consumi e aumento della disoccupazione. Per questo motivo, la decrescita come modello di sviluppo alternativo è pura mitologia. E secondo lo stesso principio, anche la competitività delle grandi imprese, delle corporazioni, delle multinazionali che investono miliardi nei paesi più poveri si afferma nel mercato globale esclusivamente mediante la massimizzazione dei profitti (nessun investitore acquista azioni di società quotate in borsa votate alla decrescita) e quindi mediante lo sfruttamento brutale di risorse naturali e forza lavoro. È l’essenza del libero mercato, la sua struttura portante. Che non può essere negata se non negando il libero mercato in sé. È opinione di chi scrive che una Sinistra degna di questo termine ricollocherebbe la questione, per immane che possa apparire, al centro della propria agenda.
Chi non ha lo stomaco debole, provi a scorrere i commenti a uno qualunque dei post inerenti al tema dell’immigrazione che Matteo Salvini ha pubblicato in questi giorni su Facebook. È ora che le cose vengano chiamate con il loro nome.
Il riferimento a ineluttabili dinamiche macroeconomiche non basta tuttavia a dare giustificazione morale all’ecatombe che nel Mediterraneo si presenta ai nostri occhi, perfino il liberista più fanatico riconosce la natura umanitaria dell’emergenza di migliaia di persone alla mercé dei flutti. Manuali di dottrine politiche alla mano, l’unica ideologia capace di affermare la legittimità del respingimento in mare, del rifiuto del salvataggio, dell’omissione di soccorso su scala internazionale è il fascismo. Lo si vorrebbe negare? Chi non ha lo stomaco debole, provi a scorrere i commenti a uno qualunque dei post inerenti al tema dell’immigrazione che Matteo Salvini ha pubblicato in questi giorni su Facebook. È ora che le cose vengano chiamate con il loro nome.
In qualsiasi conflitto, politico e non, è di fondamentale importanza sapere con esattezza chi si ha di fronte, quali sono i suoi scopi e quali sono i mezzi di cui dispone per realizzarli. Se il macabro dibattito pubblico sui destini dell’Aquarius ha avuto un merito, è quello di aver definito con limpida chiarezza il campo della contesa. E chissà che gli eventi di questi giorni non aiutino tutti noi a riconoscere la durezza dello scontro che ci attende.