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Foto: Paolo Rumiz
Gesellschaft | Dibattito

Quanta enfasi!

A Bolzano Paolo Rumiz racconta il suo viaggio alle radici (cristiane) dell'Europa. Un grande narratore, vittima del proprio talento.
 
Paolo Rumiz parla e scrive troppo bene. Mercoledì 27 marzo ha incantato per oltre un'ora il pubblico dell'aula magna della Libera università di Bolzano presentando il suo ultimo libro “Il filo infinito. Viaggio alle radici d'Europa”. Parla così bene, che chi lo ascolta non bada più a ciò che dice; altrimenti le reazioni dei presenti non sarebbero state così entusiaste o almeno così unanimemente entusiaste. Si goda il suo successo, del resto meritato e consolidato. Ma se dobbiamo entrare nel merito delle affermazioni che ha fatto, a me viene più di una perplessità – e ad altri anche, spero.
 
Il racconto inizia incontrando San Benedetto, ovvero la sua statua, nella cittadina umbra di Norcia, che Rumiz va a visitare pochi giorni dopo il terremoto dell'ottobre 2016. La piazza è un campo di macerie, della chiesa resta solo la facciata, ma la statua dell'uomo venerando, col braccio destro alzato che indica qualcosa tra la terra e il cielo, sta lì, intatta. Un segno che va decifrato. Da questo incontro inizia un viaggio per i monasteri benedettini d'Europa, durante il quale l'autore arriva a una conclusione netta e definitiva: “I Benedettini riuscirono a salvare l'Europa con la sola forza della fede”.
Io so pochissimo di San Benedetto e del suo ordine, però la conclusione è palesemente esagerata. Probabilmente hanno svolto un ruolo anche loro, insieme ad altri ordini monastici, filosofi, scienziati, uomini di lettere, signori e sovrani; senza dimenticare contadini, pastori, artigiani, soldati (come esorta a fare B. Brecht nella sua “Wer baute das siebentorige Theben?”). Alle Benedettine intente a filare la lana, cantare e coltivare l'orto, Rumiz riserva grandi lodi; ma non bisognerebbe annoverare tra coloro che hanno contribuito a salvare l'Europa anche le donne che non vivevano in convento? (Rumiz dice: “Nel limite dello spazio concavo”, che suona decisamente meglio.)
 
Il fascino delle pratiche monacali, fatte di lavoro e preghiera, è tale che le orde di barbari che invadono l'Italia si convertono al cristianesimo “in un nanosecondo”. Ora, un nanosecondo è di per sé un'unità di tempo incredibile e Rumiz lo sa bene. Però usa quell'esagerazione per sottolineare la miracolosità dell'evento. Come se la storia procedesse per salti magici, provocati da una rivelazione, un'immagine, un suono, un odore, un incontro orchestrato dal destino... Questo mi sembra un modo a dir poco ingenuo di guardare al passato. Ci sono ben altre forze che giocano il loro ruolo nella storia.
Da un intellettuale, da uno scrittore, da una persona che riflette sulla lingua oltre che sul mondo, ci si aspetterebbe qualcosa di più.
I benedettini riuscirono a salvare l'Europa “con la sola forza della fede” (cristiana). Anche la seconda parte dell'affermazione merita un esame più attento. Rumiz sembra non avere dubbi: il suo è appunto un viaggio alle “radici (cristiane o più precisamente benedettine) dell'Europa”. Ma quando il moderatore, l'ottimo Gabriele di Luca, lo invita a esplicitare il suo pensiero, per due volte svicola, preferendo raccontare con entusiasmo contagioso le visite ai monasteri e gli incontri con le eccezionali personalità che li abitano. Voglio dire: se uno ti ricorda che vi furono anche altre radici culturali o religiose e ti fa presente che contribuirono anch'esse a costruire l'Europa, devi pur entrare nel merito e argomentare, anziché tornare alla carica con l'enfasi.
 
Tra le affermazioni più stupefacenti è da riferire quella secondo cui “c'era più Europa quando c'erano le frontiere, che ora, quando non ce ne sono più”. Per rimarcare, Rumiz afferma che ora ci sono le frontiere nelle teste. Molto suggestivo, anche perché le frontiere nelle teste effettivamente ci sono. L'affermazione stupisce a maggior ragione perché viene da un triestino, che ha avuto davanti alla porta di casa una frontiera, e che frontiera!,motivo di lutti e sofferenze per chi viveva da una parte e per chi dall'altra. Ma Rumiz insiste, sempre cercando l’effetto paradosso: per lui quella frontiera era un motivo di fascino, perché dietro essa c'era il diverso, l'”altro”, e solo in relazione all'”altro” io trovo me stesso.
Ma scusa: se l'”altro” non lo vedi, non ci parli, non ci puoi fare cose assieme, che razza di relazione potrà mai nascere? Qualcuno dei presenti in sala se l'è chiesto? E quando il Nostro ricorda con palesato piacere i controlli alla frontiera del Brennero, con i gendarmi austriaci dal grande cinturone che lui vedeva dal finestrino, non è che sta scambiando un ricordo d'infanzia per una fortunata condizione storica? Cosa direbbe ai tanti abitanti della nostra provincia che invece sono contenti di poter passare liberamente il confine?
 
 
Il problema, io credo, è che parlando o scrivendo troppo spesso guardiamo alla forma, mentre il contenuto scivola in secondo piano, anzi: si dissolve proprio, lasciando il posto alle belle frasi.
Una cosa giusta l'ha detta quando ha ricordato che manca una “narrazione” chiara, convincente, persuasiva dell'Europa; una “narrazione” che sappia rispondere alle tante volgarità, agli insulti, alle denigrazioni e diffamazioni di cui è oggetto. Chi si aspettava qualcosa di concreto, uno spunto, un esempio, una qualche indicazione è rimasto deluso. Rumiz ha ricostruito un dialogo col suo nipotino al quale ha detto che l'Europa è un grande progetto di pace. Verissimo anche questo, ma per nulla originale. L'Europa come (grande) progetto di pace è un refrain, che si ripete ad ogni occasione ufficiale; di sicuro tutti i presenti in sala l'hanno già sentito. Non che sia falso, anzi: l'Europa è proprio questo. Solo che ripeterlo così non porta a niente. Da un intellettuale, da uno scrittore, da una persona che riflette sulla lingua oltre che sul mondo, ci si aspetterebbe qualcosa di più.
 
Comunicare (informazioni, concetti, ragionamenti, ipotesi, sensazioni…) è troppo spesso esercizio di stile, ricerca di eleganza, affabulazione brillante, volta soprattutto a stupire, anche a costo di sostenere tesi che non reggono a una verifica puntuale. Nel nostro paese ha troppo spazio, non solo nella produzione letteraria, ma anche in quella saggistica, la poetica di Giovan Battista Marino: “È del poeta il fin la meraviglia (parlo de l'eccellente e non del goffo): chi non sa far stupir, vada alla striglia!”