Quando l'estate sta volgendo al termine, puntuali come i funghi nei boschi, spuntano sulle pagine dei giornali locali e nazionali le lettere di turisti italiani che, dopo aver passato alcuni giorni di vacanza in Alto Adige, sentono il bisogno di esprimere qualche valutazione, in genere aspra, sulla realtà locale così come è sembrato loro di averla percepita. Quest'anno, devo dire, l'intero mese di agosto era passato senza che mi riuscisse di trovar traccia di questi sfoghi cartacei. Pensavo che se ne fosse persa l'abitudine oppure che fossero stati ingoiati nel "mare magnum" dei social.
Mi sbagliavo.
Giovedì scorso il tema è tornato a galla, nobilitato addirittura da una collocazione di tutto prestigio: due colonne intere nella rubrica che la giornalista Concita De Gregorio cura sulla pagina delle lettere del quotidiano La Repubblica. Una lettera lunga, appassionata, scritta da un impiegato quarantaduenne di Roma che si firma con nome e cognome e che la De Gregorio presenta come "intristito per l'imbarbarimento del nostro tempo". A provocare questa profonda tristezza, a quanto pare, gli esiti di una vacanza in Alto Adige durante la quale, al Nostro, è successo di recarsi a visitare una festa di paese in una delle località più periferiche di tutta la provincia, il paese di Plan in val Passiria.
E qui è successo il fattaccio che il turista romano descrive così: "Organizzazione perfetta, efficiente, se non fosse per lo scoglio linguistico: nessuno degli organizzatori parla italiano. In realtà neanche i partecipanti alla sagra, giovani o anziani che fossero parlavano italiano, e questa condizione stupisce perché in qualsiasi paese, anche il più remoto della Sicilia o Sardegna, l'italiano è lingua conosciuta".
In realtà, a ben leggere la lunga missiva, si capisce che lo sconcerto dell'autore era iniziato ancor prima di rendersi conto che avrebbe difficilmente trovato qualcuno disposto a fare una bella chiacchierata con lui nella lingua di Dante. Nella lettera egli descrive così le caratteristiche della festa popolare: "Dimenticate zucchero filato, croccante e bancarelle perché troverete un grande capannone dove viene servita birra a fiumi e poi würstel, crauti e patate, tutto accompagnato da musiche e balli tradizionali tirolesi; una piccola Oktoberfest, che viene celebrata a Ferragosto anziché a ottobre, in un Comune italiano invece che a Monaco di Baviera.
Seguono molte altre considerazioni, alcune delle quali più che condivisibili come quelle sulla progressiva costruzione di barriere di stampo sovranista all'interno di un'Europa nella quale i popoli non riescono più a dialogare tra di loro. Da qui l'amaro smarrimento del nostro turista che esprime pessimistiche considerazioni sull'imbarbarimento di una situazione che porta ad esasperare i conflitti e a negare le occasioni di confronto e arricchimento reciproco. Un quadro apocalittico al centro del quale resta collocato, a giudizio dell'autore della lettera, un Sudtirolo nel quale "l'italiano - egli scrive - non viene insegnato a scuola o viene insegnato come seconda lingua".
La prima considerazione che viene spontaneo fare, una volta terminata la lettura di questa lettera, cui si è ritenuto, lo ripetiamo, di dare uno spazio di assoluto rilievo su uno dei quotidiani più prestigiosi d'Italia, è che, mentre ci si ricorda che sono passati cent'anni da quel trattato di pace in quale l'Italia annetteva come bottino di guerra una terra abitata da un popolo che italiano non era e non voleva essere, risulta ancora straordinariamente difficile spiegare le particolarità di questa situazione a chi vive lontano da qui e vi capita solo per qualche giorno, ogni tanto.
È comprensibile che l'italiano medio, dopo aver scoperto le bellezze delle Dolomiti in una fortunatissima serie televisiva nella quale le guardie forestali si muovono nei boschi dell'alta Pusteria parlando italiano con spiccato accento veneto, si trovi un attimo spiazzato quando arriva sul posto e scopre che le cose stanno un po' diversamente. Eppure se il nostro tristissimo turista avesse preso la macchina, percorso qualche decina di chilometri sulla strada panoramica del Passo del Rombo, scendendo nella vicina valle di Sölden, avrebbe trovato del tutto naturale, crediamo, che in quei paesi parlassero più o meno lo stesso dialetto tedesco usato a Plan e che le feste di paese fossero leggermente diverse dalle sagre che si organizzano in Puglia o in Sicilia. Solo perché, con quella breve gita, aveva valicato un confine, uno di quei muri invisibili che tanto depreca, che ha separato, un secolo fa, un popolo vissuto assieme per oltre mille anni.
Sono considerazioni che evidentemente l'autore della lunga lettera pubblicata su, La Repubblica non ha nemmeno iniziato a fare, tanto da dover trovare riprovevole il fatto che l'italiano venga insegnato nelle scuole tedesche come seconda lingua. C'è stata un'epoca, si potrebbe ricordargli, nella quale questo in effetti non avveniva e nelle scuole l'italiano era materia prima ed anzi unica di insegnamento, ma non sono certo periodi da rimpiangere.
Detto tutto questo e rimarcato che la lunga lettera non è certo quanto di peggio sia stato scritto sulla situazione altoatesina negli ultimi anni, resta l'interrogativo di fondo che giustifica anche il fatto di occuparsene su queste pagine. Si tratta di capire quanto sfoghi di questo genere rappresentino una realtà generalizzata nella conoscenza che dell'Alto Adige all'opinione pubblica italiana. Il timore è che ci si trovi di fronte un pregiudizio diffuso, alimentato dalla mancanza di conoscenza della realtà soprattutto delle vicende storiche che hanno portato e porta una minoranza a dover vivere, contro la propria volontà, all'interno di un paese di lingua e cultura diverse.
L'impressione è quella per cui, ad onta delle inchieste giornalistiche, dei saggi storici e di una robusta produzione letteraria come quella registrata negli ultimi anni con ambientazione altoatesina, la strada da percorrere sia ancora molto lunga e assai impervia.