Ottimo lavoro, come sempre,
Ottimo lavoro, come sempre, Maurizio. Molto interessante e - ça va de soi - ben scritto.
Prendete un campione di calcio, un giovane che diventerà una stella del giornalismo capace di indagare con eguale intensità lo svolgersi degli avvenimenti internazionali e i misteri dell’anima e un ex ministro degli interni dell’Impero austroungarico. Metteteli attorno a un tavolo, agli albori del ventennio fascista, a scrivere e a sottoscrivere un patto politico che anticipa di mezzo secolo la nostra attuale autonomia.
Libero chi mi legge di pensare, a questo punto, che io mi sia giocato definitivamente quel poco di raziocinio che mi restava e che mi stia pericolosamente avventurando sui contorti sentieri della fantapolitica.
Invece è tutto vero. È la storia che oggi ho deciso di raccontarvi.
È una storia di persone, ma per comprenderne la natura bisogna prima descrivere il contesto storico in cui si svolge. Siamo nel gennaio del 1923. Da un paio di mesi l’Italia è governata dal capo del fascismo Benito Mussolini. Ancor prima di minacciare la marcia su Roma le camicie nere hanno regolato i conti in sospeso a Bolzano e Trento. Hanno occupato una scuola tedesca, cacciato l’odiatissimo sindaco Perathoner, rispedito a Roma anche l’altrettanto detestato Commissario civile Luigi Credaro. L’orizzonte politico per i sudtirolesi riuniti sotto le insegne del cosiddetto Deutscher Verband, che mette assieme cattolici e liberali, si presenta quanto mai tempestoso. Nei primi giorni di gennaio del nuovo anno, però, si apre un inatteso spiraglio. Il segretario della piccola e neocostituita sezione bolzanina del PNF, un giovane piemontese arrivato in Alto Adige per far commercio di legnami, Luigi Barbesino , propone ai vertici del Verband di discutere l’ipotesi di una sorta di accordo politico che ponga fine ai contrasti e all’ostilità reciproca. La proposta viene accettata e le trattative iniziano. La notizia arriva quasi subito sulla scrivania di Mussolini. A informarlo è il Prefetto di Trento Guadagnini il quale a sua volta è stato reso edotto della vicenda dal giovanissimo Commissario inviato durante gli ultimi giorni del governo Facta a sostituire, in Municipio a Bolzano, l’espulso Perathoner. Si chiama Augusto Guerriero ed è lui che viene incaricato di sorvegliare da lontano ma non troppo, l’andamento dell’impresa.
Mussolini, nella sua risposta al Prefetto, parla abbastanza chiaro: “Ella deve mantenersi estraneo a trattative tedesco-fasciste in Alto Adige, ma non osteggiarle – Stop - Io personalmente non vedrei male una intesa fascista-tedesca improntata ai fini nazionali della assimilazione e del fatto compiuto dell’annessione”.
Il telegramma è del 14 gennaio e con questa cauta benedizione le trattative vanno avanti per oltre un mese. Verso la fine di febbraio c’è un testo concordato dalle due parti che porta in calce le firme di Barbesino per il Partito fascista e di due deputati del Verband, Friedrich von Toggenburg e Wilhelm von Walther. Ci sono dunque quarti di antica nobiltà tirolese e di altrettanto illustre storia politica a conferire importanza ad un’intesa, approvata a maggioranza dai due partiti, liberale e cattolico, non senza però la durissima contestazione dell’ala più estremista guidata da un altro deputato, Reut Nicolussi, e condivisa anche dagli ambienti pangermanisti di Innsbruck e Monaco di Baviera. Un autorevole assenso giunge invece da Vienna.
Sul contenuto dell’intesa, articolato in tredici punti, spendiamo solo poche parole: ai sudtirolesi venivano in sostanza garantiti il diritto a continuare ad usufruire della scuola in lingua tedesca e l’uso della loro lingua nei rapporti con la pubblica amministrazione. In cambio essi promettevano di interrompere ogni rapporto con le famose centrali pangermaniste di cui sopra e di attenersi rigidamente al principio secondo cui quella altoatesina sarebbe rimasta una questione del tutto interna allo Stato italiano. In pratica una rinunzia perpetua ad invocare l’internazionalizzazione del problema altoatesino e possibili mutamenti di frontiera.
Il documento firmato ripercorre così la trafila che lo porta dalla scrivania del Commissario Guerriero a quella del Prefetto Guadagnini ed infine, il giorno 3 marzo 1923, a quella di Benito Mussolini.
Segue un breve silenzio e poi l’inevitabile bocciatura. A silurare l’intesa sono ampie parti dell’universo fascista, che aveva fatto nella battaglia contro ogni forma di indipendentismo sudtirolese una delle istanze centrali della lotta politica degli anni precedenti. Tra coloro che insorgono c’è il futuro segretario nazionale del PNF Achille Starace, da sempre vicino alle camicie nere trentine e c’è soprattutto il nazionalista per eccellenza Ettore Tolomei che quell’accordo vede ovviamente come il fumo negli occhi. È lui che esce come vincitore dall’intera vicenda. Viene nominato Senatore e Mussolini lo incarica, assieme al fanatico antisemita Giovanni Preziosi, di elaborare il programma di italianizzazione dell’Alto Adige che verrà attuato di lì a qualche mese.
Il patto siglato a Bolzano finisce così nel cestino della carta straccia, rievocato periodicamente in chiave storica come pura curiosità. Non si fermano, invece, le vicende umane di coloro che, di quel piccolo incongruo capitolo della storia sudtirolese, furono protagonisti e che rivelano, in un paio di casi, particolari a dir poco incredibili.
Luigi Barbesino nasce a Casale Monferrato nel 1894. Quando sigla l’accordo con il Verband ha dunque appena 29 anni, ed è giunto da non molto in Alto Adige ma è già una figura notissima di sportivo, uno di quei calciatori che, se vivesse oggi, guadagnerebbe miliardi e sarebbe un idolo delle folle. Dopo essere emerso nelle squadre giovanili della sua città, arriva in prima squadra e conquista, con il Casale, uno storico scudetto nella stagione 1913-1914, battendo in finale la Lazio. Di quella squadra Barbesino è una delle stelle, a tal punto da guadagnarsi la convocazione in Nazionale da parte del mitico allenatore Vittorio Pozzo per le olimpiadi di Stoccolma del 1912. Scende anche in campo ed è tra i più giovani ad aver vestito la maglia azzurra. Ad interrompere tutto ci pensa la guerra, terminata la quale Barbesino potrebbe riprendere la carriera. Rifiuta però tutte le offerte, anche da parte di società blasonate, e cambia, come gli capiterà ancora nella vita, totalmente il senso della sua esistenza. Si lancia nel settore del commercio del legname in Alto Adige e, all’attività lavorativa, affianca ben presto quella politica, diventando il punto di riferimento del piccolo gruppo di italiani, anch’essi di recente immigrazione, che costituiscono a Bolzano la sezione del PNF.
A proiettarlo improvvisamente sulla scena politica nazionale, la vicenda del patto con i sudtirolesi la bocciatura del quale rappresenta però un siluro durissimo per il giovane segretario bolzanino che l’aveva sostenuta. Barbesino non cede, si scontra duramente con Starace e viene espulso dal partito. Abbandona Bolzano e comincia altrove la sua terza vita, di nuovo dedicata, questa volta, all’antico amore dell’arte calcistica.
Ormai non ha più l’età per vestire la divisa di giocatore e quindi sceglie quella di allenatore. Le prime notizie su di lui, in questa nuova veste, risalgono al 1928 quando guida il Legnano ad una storica promozione in serie A. Poi il grande salto alla Roma, che guiderà ottenendo grandi successi per diversi anni, sfiorando addirittura la conquista di uno scudetto, mancato solo perché alcuni giocatori oriundi, tra i più bravi, avevano abbandonato la squadra per paura di essere imbarcati per la guerra d’Etiopia. Anche gli anni trascorsi in panchina sul famoso campo del Testaccio, rimasto mitico nella memoria giallorossa, terminano bruscamente, con una di quelle inversioni di rotta umane che, lo si è capito, facevano parte della personalità molto particolare di Luigi Barbesino. Verso la fine degli anni trenta abbandona di nuovo il calcio e si arruola nella Regia Aereonautica. Diventa osservatore e vola, allo scoppio della guerra, sugli apparecchi della 194ª squadriglia. Missioni di scorta, di bombardamento, soprattutto nella zona del Canale di Sicilia tra Italia e Africa. È qui che l’aereo con a bordo Luigi Barbesino si inabissa il 20 aprile 1941. Ufficialmente durante una missione, ma, secondo una voce che circola insistentemente, durante un tentativo generoso anche se vietato dalle regole di andare a soccorrere dei colleghi in difficoltà. Finisce così, nelle acque del Mediterraneo che ne custodiscono ancora le spoglie, la storia del grande campione, del grande allenatore, dell’aviatore che firmò l’accordo tra sudtirolesi e fascisti.
Augusto Guerriero è quasi coetaneo di Luigi Barbesino. Ha da poco compiuto i trent’anni quando viene catapultato a Bolzano, giovanissimo funzionario di prefettura, scelto in virtù della sua conoscenza del tedesco più che per altri requisiti, per andare a occupare il posto del sindaco Julius Perathoner, cacciato dai fascisti. Ricopre comunque il ruolo di commissario nel capoluogo altoatesino solo per alcuni mesi. Il tempo di assistere al cambio di governo e di fungere da osservatore riguardo al tentativo di pacificazione tra fascisti e sudtirolesi. Anche per lui comunque, così come per il piemontese calciatore e aviatore, la radicale bocciatura del progetto significa la fine dell’incarico. Viene allontanato la Bolzano e abbandona anche i ruoli della pubblica amministrazione dedicandosi a quella vocazione che era stata la sua sin dal tempo degli studi universitari: la scrittura.
Inizia a collaborare a pubblicazioni di vario genere ma il suo scarso se non nullo entusiasmo per il regime fascista ne ostacola non poco la carriera. Proprio il contenuto di una serie di articoli pubblicati sul giornale Il Mattino ne causano l’espulsione dai ranghi del giornalismo. Deve tornare, per vivere, della pubblica amministrazione con incarichi nelle colonie, al ministero dell’industria e infine alla Corte dei Conti dove resterà in carica sino al dopoguerra. Continua comunque a scrivere per le testate più importanti, a subire gli strali del regime evitando conseguenze gravi solo grazie alla protezione che gli accordano personaggi del calibro di Leo Longanesi, Vittorio Gorresio e Curzio Malaparte. È quest’ultimo a cucirgli addosso lo pseudonimo di Ricciardetto che conserverà per tutto il resto della carriera. Riesce in qualche modo a superare gli anni di guerra e, nel 1946, viene assunto dal Corriere della Sera di cui diventa uno degli editorialisti più apprezzati ed importanti. Scrive, anche sul settimanale Epoca, di politica estera e interna e, occasionalmente, anche delle cose altoatesine di cui conserva ampia e dettagliata memoria. Negli ultimi anni di vita approfondisce, da un punto di vista rigorosamente laico, le tematiche della fede e dell’animo umano con una ricerca documentaria sulle origini del cristianesimo e sulla natura storica di Cristo.
Si spegne il 31 dicembre del 1981.
Sul famoso documento dei tredici punti che racchiude l’intesa tra sudtirolesi fascisti, oltre alla firma di Barbesino e quella dell’altro deputato sudtirolese Wilhelm von Walther, c’è anche la sua. Friedrich von Toggenburg appartiene ad una delle famiglie nobili più antiche del Tirolo. Quando si siede al tavolo delle trattative ha dietro le spalle un’esperienza di amministrazione e di governo assolutamente incomparabile rispetto a quelle degli altri partecipanti a quell’avventuroso dialogo. Dopo gli studi e il servizio militare ha intrapreso la carriera pubblica a Innsbruck e nel Trentino. Viene improvvisamente lanciato sul proscenio della politica in uno dei momenti più drammatici della storia dell’Austria. Nell’ottobre del 1916 è testimone dell’assassinio del presidente del consiglio austriaco Karl von Stürgkh, con il quale stava pranzando in un albergo viennese quando viene ucciso dall’esponente socialista Friedrich Adler. Nel giugno del 1917 è chiamato dall’Imperatore Carlo a ricoprire l'incarico di Ministro dell’interno nel governo dell’Austria-Ungheria, carica che manterrà sino alla fine della guerra e alla dissoluzione dell'Impero. Nel 1918 rientra a Bolzano e si impegna subito direttamente nel rappresentare le istanze della minoranza passata sotto l’Italia. Nel 1921 viene eletto nelle liste del Deutscher Verband alla Camera dei deputati.
Dopo il mancato accordo prosegue la sua azione politica che tuttavia, al pari di quella del collega von Walther e degli altri esponenti del Verband va progressivamente a spegnersi sotto l’impatto delle leggi liberticide con le quali, dal 1924 in poi, il fascismo soffoca progressivamente e alla fine proibisce qualunque tipo di attività politica. Muore a Bolzano nel 1956.
Questa è la storia e questi sono i personaggi che le diedero vita. Nulla di fondamentale nel libro delle vicende che hanno attraversato, da un secolo a questa parte ,la nostra terra. Curioso, solamente, l’intrecciarsi dei destini di persone che avevano o che avrebbero avuto momenti di grande notorietà e che, per qualche settimana, ebbero la ventura di ritrovarsi assieme per tentare un esperimento che, se lo si guarda bene, conteneva in sé parecchi di quegli elementi che, decenni dopo, avrebbero formato il nucleo dell’autonomia che stiamo sperimentando ai giorni nostri.
Ottimo lavoro, come sempre, Maurizio. Molto interessante e - ça va de soi - ben scritto.