http://www.questotrentino.it
http://www.questotrentino.it/articolo/11901/fuori_dalla_fortezza_europea Ciao Jovan e grazie per il tuo racconto appassionato
Quando lo incontrai per la prima volta, nel novembre del 2017, ne rimasi immediatamente folgorato. Quel gentiluomo vecchio stampo che salutava le donne col baciamano e accoglieva i suoi ospiti con la giovialità di un semplice pensionato, ipnotizzava in pochi minuti chiunque lo ascoltasse. Secondo in comando dell’Esercito della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina (istituito nel 1992 all’esplodere della guerra), difese Sarajevo dall’aggressione dei nazionalisti serbi nonostante l’inferiorità di uomini e armamenti in rapporto di uno a dieci. Durante i 44 mesi dell’assedio, in cui morirono 11.400 civili sotto gli occhi inerti dei caschi blu francesi, Divjak impedì la capitolazione della città. Lui stesso di origine serba, rimase fedele agli ideali della sua Jugoslavia (era stato membro della guardia personale di Tito) difendendo la comunità multiculturale di Sarajevo da chi praticava, ispirandosi al programma nazionalista serbo-bosniaco che riesumava il concetto nazista di “Lebensraum”, la più spietata pulizia etnica. Divjak guadagnò il rispetto dei sarajevesi, dopo le iniziali diffidenze anche di alcuni alti ufficiali dell’esercito bosniaco a causa delle sue origini, non solo conducendo le truppe con impareggiabile genio tattico, ma supportandone il morale con la sua costante presenza in primissima linea.
Finita la guerra, creò l’associazione Education builds Bosnia and Herzegovina, che elargì migliaia di borse di studio a giovani bosniaci bisognosi. Nel tempo rimanente, accoglieva ogni anno decine di delegazioni che si recavano a Sarajevo per incontrarlo. Era in grado di parlare a ruota libera, già ultraottantenne, per tre ore di fila senza mai sedersi né mai perdere il filo. Estremamente colto e dall’intelligenza politica sopraffina, raccontava la guerra nella sua brutale crudezza, senza filtri e senza censura. Non risparmiava a chi lo ascoltava i dettagli più agghiaccianti, con un intento del tutto inequivocabile: chi conosce la guerra, non potrà che odiarla.
Quando lo rividi, nel marzo del 2018, alla fine del suo racconto gli chiesi come aveva fatto a sopportare quell’indicibile pressione, assistendo quotidianamente a scene di assoluta atrocità e con il destino di un’intera città appeso in larga parte alle sue decisioni. Esitò per qualche istante. “È stato l’amore dei sarajevesi a darmi la forza. E il mio amore per loro.” Credo amasse la vita come solo chi ha visto l’abisso con i suoi occhi può davvero comprendere. Sono profondamente grato di aver avuto l’assoluto privilegio di incontrare un simile gigante. Possa il suo nome risuonare per sempre tra le vie di Sarajevo. E nella memoria di chi ebbe la fortuna di conoscerlo.
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