La rabbia giovane
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È in competizione per la Germania agli Oscar 2025, che si terranno a Los Angeles domenica 2 marzo, nella categoria Miglior Film Internazionale: Dāne-ye anjīr-e ma'ābed (Il seme del fico sacro) del regista iraniano Mohammad Rasoulof, già vincitore del premio speciale della giuria a Cannes, è il film da vedere. Diciamolo subito: non è un capolavoro, ma se rischi 8 anni di carcere per aver girato un film prima giù il cappello e poi semmai tutto il resto.
Cos’è
Rasoulof, che nel 2020 vinse l’Orso d’oro a Berlino con Sheytān vojud nadārad (Il male non esiste), ha realizzato Il seme del fico sacro in clandestinità, scappando poi dall’Iran di fronte alla condanna a otto anni per “collusione contro la sicurezza nazionale” e rifugiandosi in Germania. Il film in corsa per l’Oscar racconta di Iman (Missagh Zareh), un funzionario governativo tutto patria e famiglia che sta per essere promosso a giudice istruttore del tribunale della Guardia rivoluzionaria mentre Teheran è in preda ai disordini politici in seguito alla morte di Mahsa Amini, nel settembre 2022.
Quando un giorno la sua pistola d’ordinanza sparisce, Iman sospetta della moglie Najmeh (Soheila Golestani) e delle due figlie Rezvan (Mahsa Rostami), studentessa universitaria, e l’adolescente Sana (Setareh Maleki), sostenitrici del movimento di protesta popolare Donna, Vita, Libertà che imperversa nel Paese. L’uomo, che si fa personificazione esplicita del patriarcato, impone loro una disciplina sempre più rigida e severa attraverso l’intimidazione e l’abuso psicologico, rivoltandosi contro la sua stessa famiglia in un crescendo di paranoia e diventando l’inquietante villain della storia.
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(c) TIFF
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Com’è
Il seme del fico sacro è un film ambizioso che mette a nudo l’oppressione sistematica perpetrata in Iran ma che sembra realizzato per stimolare le simpatie di un pubblico europeo. Il film intreccia le lotte politiche del Paese con le micro-dinamiche di una famiglia sotto il giogo tirannico del padre. In questo senso l’allegoria è tutt’altro che sottile: la “prigionia” domestica a cui sono costrette Rezvan e Sana dal padre, ad esempio, rappresenta in scala la prigionia delle donne nella società iraniana, così come la perdita di controllo di Iman sulla sua famiglia richiama l’ampio contesto politico della perdita di controllo dello Stato sul suo popolo mentre infuriano i tumulti – per rendere più evidente la posta in gioco Rasoulof inserisce nel film una serie di filmati reali delle proteste del 2022 e del 2023 girati con gli smartphone.
L’assenza di complessità dei personaggi, il disequilibrio dei temi narrativi, la rinuncia a scavare veramente in profondità negli abusi istituzionali (la questione morale dell’eseguire ciecamente gli ordini in nome della sopravvivenza sarebbe stato un capitolo interessante da sviscerare, per esempio) a favore di un simbolismo manifesto fanno perdere mordente al film. Il seme del fico sacro parte come un avvincente dramma procedurale à la Asghar Farhadi – ma senza la stessa raffinatezza di scrittura – con sequenze di apertura e chiusura notevoli, per poi virare verso il dramma famigliare che sfiora l’horror, con un cambio di tono nel finale che scompiglia l’ordine del racconto. Il senso di tensione e suspence hitchcockiana, innescato dall’espediente della pistola e che cresce man mano che la rete di eventi si dipana, prepara il terreno per l’esplosiva catarsi nell’ultimo atto del film, con Iman che si trasforma in una specie di Jack Torrance della Repubblica islamica.
In sostanza quella che mette in scena Rasoulof è una storia che merita di essere raccontata e merita di essere vista. Anche se le nobili intenzioni sostengono il film del cineasta iraniano solo fino a un certo punto. Ma cinema dissidente=buon cinema non è sempre un’equazione giusta. Qui il seme di un grande film c’è, peccato però che non sia all’altezza delle sue premesse.
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