A proposito di ego
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Dal 20 dicembre è disponibile su Netflix, ma presto arriverà anche al cinema, Maestro, incentrato sul celeberrimo compositore e direttore d’orchestra statunitense Leonard Bernstein, diretto, prodotto (insieme a nientedimeno che Martin Scorsese e Steven Spielberg), co-scritto (con Josh Singer) e interpretato da Bradley Cooper, uno che in questo film si sforza fortissimo di far emergere la sua voce autoriale. E io capisco lo slancio, capisco l’ardimento e le buone intenzioni ma se il racconto non sopporta il peso delle aspirazioni di grandezza del film allora, Bradley, forse qualche problemino ce l’abbiamo.
Cos’è
L’elemento centrale di Maestro è il legame tra Leonard Bernstein (Cooper) e sua moglie, Felicia Montealegre (Carey Mulligan). La loro relazione inizia nel 1946 – Bernstein è un ragazzo carismatico quasi trentenne e la sua carriera musicale è in ascesa, Montealegre, di quasi quattro anni più giovane, è nata in Costa Rica e cresciuta in Cile, ed è venuta a New York per studiare pianoforte e recitazione – otterrà una certa fama come attrice sul palcoscenico e in televisione ma soprattutto si occuperà di gestire la casa e crescere i tre figli nonché di alimentare la vocazione artistica del marito mettendo da parte la propria. Il film termina con la morte di lei, nel 1978, quando Bernstein era famoso in tutto il mondo come direttore d’orchestra e compositore (autore fra le altre cose delle musiche di West Side Story e Fronte del Porto).
Il conflitto principale nel loro matrimonio è la vita sessuale di Bernstein: prima di incontrare la futura moglie, ma anche durante la loro unione, aveva relazioni con degli uomini. I primi anni della carriera di Lenny e del matrimonio della coppia sono filmati in bianco e nero, dall’inizio dei Settanta si passa al colore: Lenny e Felicia sono sposati da anni, con tre figli, un attico nell’Upper West Side e una casa di campagna nel Connecticut.
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(c) Netflix
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Com’è
Maestro è pieno di scene a effetto, eleganti perfino, ma la storia, il dramma, restano sul filo della superficie, tra allusioni e sottintesi. Nel film non viene spiegato come Bernstein arrivi all’apice del successo, cosa lo rese una vera e propria star della musica mondiale, chi fosse veramente. Vengono omesse le sue attività e le sue simpatie politiche che pure influenzarono la sua vita privata e artistica – come ad esempio una raccolta di fondi per i membri delle Pantere Nere nell’appartamento della sua famiglia. Non si menziona, per fare un altro esempio, il ruolo fondamentale che ebbe nel rendere popolare la musica di Mahler attraverso le sue registrazioni per la CBS (ora Sony) negli anni ’60.
Ma se lo scopo è quello di concentrarsi sugli elementi più accessibili di Bernstein, ovvero le sue relazioni interpersonali, il film è ugualmente poco ispirato. La stessa Felicia è chiusa nel ruolo simbolico di moglie-coraggio che supporta il marito, paradigma dell’abnegazione di una donna. La protesi nasale indossata da Cooper, che tante critiche ha scatenato, sembra insomma l’ultimo dei problemi. Le interpretazioni sono fin troppo letterali, anche se Mulligan si eleva nel terzo atto del film – quando le condizioni di salute di Felicia peggiorano – riuscendo a infondere al suo personaggio convincente vulnerabilità e risolutezza. L’estasi spirituale di Cooper nell’impersonare (con accento caricaturale) Bernstein durante la storica esecuzione filmata della Sinfonia n.2 di Mahler, nel 1973, nella Cattedrale di Ely, è invece l’ultima esca calata per l’Oscar. Academy assecondata ed ego lubrificato a dovere. Urrà.
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