Culture | Gastbeitrag

L’autismo come presenza urbana

In “La città autistica” Alberto Vanolo riflette sullo spazio urbano a partire dall’esperienza con il figlio — sperimentando con libertà una condizione di neurodivergenza.
Bolzano
Foto: Seehauserfoto
  • La città autistica, edito da Einaudi quest’anno per la collana di saggi Le Vele, racconta fondamentalmente il progetto di una città aperta, ovvero una città che permette e accoglie i diversi modi che abbiamo, ognuno di noi, di esperirla. L’autore, Alberto Vanolo, professore di geografia politica ed economica presso l’Università di Torino, usa la sua esperienza in città con il figlio autistico, Teo, per riflettere sullo spazio urbano, e la sua esperienza di spazio urbano per pensare l’autismo. Il libro si muove agilmente tra dibattiti accademici specialistici, attivismo, e “autoetnografia”, ovvero quella ricerca che usa le esperienze personali, autobiografiche per comprendere questioni socio-politiche, che toccano più persone. È un libro generoso, che racconta un’esperienza quotidiana, intima e creativa, fatta di missioni psicogeografiche in città, di attività di esplorazione, di cura, di apprendimenti faticosi, di relazioni sorprendenti. 

    È un libro generoso, che racconta un’esperienza quotidiana, intima e creativa, fatta di missioni psicogeografiche in città, di attività di esplorazione, di cura, di apprendimenti faticosi, di relazioni sorprendenti. 

     

    Praticando gli ‘studi urbani critici’, Vanolo vive la città, concepisce lo spazio urbano come una rete tessuta e in tessitura di relazioni, uno spazio creato da noi che nello spazio, con i nostri corpi, ci dobbiamo vivere. Lo spazio aperto è lo spazio che apriamo noi tutti, tra di noi e per noi. Lo spazio chiuso è quello che chiudiamo. Questo modo di teorizzare lo spazio è intrinsecamente politico, poiché non ci sono spazi che non siano significati e preordinati alle persone che li vivono. Quale rilevanza può avere questa concezione di spazio per le persone autistiche? Permette di pensare all’autismo – ma il discorso non si limita all’autismo – senza focalizzarsi su ciò che le persone autistiche non hanno, non fanno, non sanno fare. Vanolo chiama questo approccio una ‘fenomenologia dell’assenza’: il modo in cui approcciamo la neurodivergenza nonostante sia qualcosa che ormai sappiamo ‘nominare’, presente nel discorso pubblico, nei media e nella nostra quotidianità. La neurodivergenza non è un’assenza, ma una presenza nello spazio politico, sociale, e quindi anche urbano, che va approcciata con occhi diversi. Lasciando perdere le logiche categorizzanti, è possibile porre ‘l’attenzione sul dispiegarsi dell’originalità dei fenomeni’.

    La neurodivergenza non è un’assenza, ma una presenza nello spazio politico, sociale, e quindi anche urbano, che va approcciata con occhi diversi. 

  • La città autistica: assumendo una postura queer è possibile vivere la città come uno spazio di gioco. Foto: Einaudi
  • Importante in questo senso è il saggio del 1993 del sociologo e attivista autistico Jim Sinclair, dal titolo Don’t mourn for us (Non piangete per noi). Sinclair legge l’autismo come un modo (valido, plurale, arricchente) di esperire il mondo e se stessi, e non una corazza che nasconde al suo interno un individuo ‘normale’, da tirare fuori attraverso interventi pensati per apprendere faticosamente un modo di comportarsi ‘normale’ (nel caso dell’autismo la parola chiave è ‘tecniche ABA’). Il paradigma della ‘neurodiversità’ abbandona il pensiero dominante, categorizzante, patologizzante e normalizzante, per prendere la strada dell’inclusione e dell’orgoglio della queerness autistica. Assumendo una postura queer, rivendicando cioè la diversità e unicità del proprio esperire, è possibile vivere la città come uno spazio di gioco. Se l’autismo è presenza orgogliosa, è quindi presenza orgogliosa nello spazio.

    Se l’autismo è presenza orgogliosa, è quindi presenza orgogliosa nello spazio. 

    La città autistica contiene una serie di buone pratiche, di proposte che definiremmo ‘concrete’. Tuttavia, se gli spazi sono le persone che li abitano, ragionare sul disegno degli ambienti urbani si rivela relativamente utile. Il disegno degli spazi è utile solamente nel caso di bisogni sensoriali diffusi, chiarezza comunicativa, disambigua, comunicazione visuale. Altrettanto importante potrebbe essere insistere sulla presenza in città di ‘bolle’ o rifugi con stimoli sensoriali ridotti, magari segnalate su mappe accessibili. Tuttavia, l’esperienza delle persone autistiche è eterogenea, e di fatto è difficile progettare spazi urbani basandosi su esigenze eterogenee. Più importanti sono le relazioni che stabiliamo in città. Vanolo prende ad esempio due manifestazioni visibili dell’autismo nello spazio pubblico, ovvero le crisi (meltdown) e lo stimming. Con crisi o meltdown si intende il crollo improvviso che segue a un eccessivo stress, fragilità o stimolazione di una persona autistica, visibile attraverso urla, disperazione, e reazioni psicofisiche molto intense. In quel caso e nel caso dello stimming – movimenti ripetitivi e autostimolanti, come ad esempio può essere la ripetizione di alcune parole o il dondolarsi – il problema reale è soprattutto negli sguardi delle persone, nella vergogna, frustrazione sperimentata dalle persone autistiche e caregiver.

    Cosa offre la città, la dimensione urbana, alle persone autistiche? Vanolo, senza troppa propensione per le fantasie rurali, ci racconta la sua esperienza flâneur con Teo: di contro agli interventi normalizzanti, la città vissuta in una maniera consapevole e attenta offre una dimensione relazionale terapeutica, ricca di occasioni di apprendimento, per le persone autistiche (e non solo). In questo senso, la ‘soluzione’ è democratica. Si tratta ‘di aprire la progettazione urbana all’inclusione di voci e modi di considerare lo spazio differenti’, ma soprattutto, si tratta di aprirsi all’esperienza e alla relazione. In questo senso, La città autistica ha il vantaggio di farci pensare alla città non solamente attraverso gli occhi di persone autistiche, ma anche attraverso i nostri occhi – o meglio, i nostri corpi.

  • Chiara Mosti è dottoranda in filosofia politica presso l'Università di Oslo.