The social media effect
Per lungo tempo il monopolio sul modo con cui la guerra e gli eventi catastrofici in genere venivano visivamente rappresentati era tutto nelle dita martellanti dei media tradizionali. Un mucchio di fotografi coraggiosi si lanciavano nelle zone calde dei conflitti e scattavano le loro foto che poi mandavano agli editori i quali sceglievano quelle più iconiche, quelle che avrebbero catturato efficacemente l'occhio del lettore ergo fatto vendere più giornali.
Oggi, dice la giornalista Kym Beeston, le cose sono ben diverse: 350 milioni di fotografie vengono caricate su Facebook ogni giorno, 27mila e 800 sono quelle condivise su Instagram ogni minuto e il 20% delle immagini di tutta la storia della fotografia sono state scattate negli ultimi due anni. Non è quindi improprio affermare che l'era in cui viviamo è ormai caratterizzata da una comunicazione visuale piuttosto che scritta.
Certo, alcuni sono solo banali scatti di vita quotidiana, eppure sempre più persone usano il potere delle immagini per documentare le ingiustizie, i conflitti, le atrocità del mondo cambiando di fatto la percezione globale degli avvenimenti stessi attraverso la condivisione sui social, diventandone dunque testimoni e interagendo con questi file visivi in un modo tutto nuovo.
Quando il conflitto israelo-palestinese si è inasprito la scorsa estate, le fotografie scattate in quel preciso momento storico si sono fatte, come mai prima di allora, veicolo di diffusione mediatica compulsiva, con alcune immagini in particolare che sono diventate simbolo nonché armi stesse della guerra in atto. Alcuni esempi: la foto di Shamia, la neonata che era riuscita a sopravvivere alla morte della madre solo per spegnersi quattro giorni dopo quando Israele, a quanto pare, decise di tagliare l'elettricità a Gaza; o l'immagine dei civili israeliani seduti sul divano che a pochi chilometri dalla Striscia guardavano i bombardamenti come spettatori davanti a una partita di calcio.
I soldati di questa guerra erano anche i milioni di social media users che hanno visto queste foto, le hanno condivise con amici e followers e le hanno commentate filtrandole attraverso il loro punto di vista. Ancora più clamore c'è stato quando alcune celebrità si sono mobilitate sulle piattaforme social in prima persona, come lo chef pluristellato Antony Bourdain che ha twittato una foto di un ragazzo morto su una spiaggia di Gaza, che è stata re-twittata a sua volta circa 15mila volte.
Il nobile intento alla base di questa collettiva personalizzazione visiva dei conflitti dovrebbe infarcirsi del presupposto per cui "la conoscenza è potere", se le persone sono coscienti di quello che gli esseri umani sono capaci di fare allora maggiori saranno le possibilità di intervenire, di sensibilizzare la comunità internazionale - soprattutto grazie alla sovraesposizione delle immagini sui social media - perché qualche torto venga finalmente raddrizzato. Nobili intenti che, tuttavia, sono espressione di velleità aleatorie terrene che nessuno si è ancora evidentemente chinato a raccogliere.
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