Le storie dietro questa immagine/3
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Un giornalista-militante della sinistra extraparlamentare degli Anni Settanta, accovacciato vicino ad uomo colpito alla testa da un proiettile. Il sudtirolese Alexander Langer accanto al corpo – apparentemente senza vita - di Domenico (Mimmo) Arbotelli, poliziotto campano allora 24enne. Un’immagine, quella di copertina, allo stesso tempo emblematica e molto cruda, che penetra nel profondo. Come detto nel primo articolo, la scelta di scriverne è arrivata dopo aver verificato che l’uomo a terra fosse sopravvissuto miracolosamente al colpo di pistola in fronte. Una vita difficile, la sua, ma comunque una vita che continua ancora. La spinta decisiva, però, è arrivata dal primo dialogo con Michele (Michelangelo) Arbotelli, gemello di Mimmo, che ha volentieri raccontato le vicende del fratello che hanno inciso non poco anche sulla sua vita. E lo ha fatto con una serenità assoluta, senza un filo di rancore, non per via - come si capirà - dei quasi cinquant’anni passati da quegli eventi, ma proprio perché, fortunatamente, al mondo ci sono anche persone così, che alle avversità reagiscono rimboccandosi le maniche.
“Mimmo – racconta Michele – era in polizia da quando aveva 19 anni. Lavorava per la Digos e faceva la scorta al pm Paolino Dell'Anno (un magistrato che aveva già subito due attentanti, negli anni precedenti, ndr). Da come mi hanno raccontato, quel giorno, dopo aver accompagnato il giudice in tribunale, i tre poliziotti erano stati ad esercitarsi al Poligono. E per tornare in prefettura dovevano passare da Piazza Indipendenza".
"Quando sono arrivati nella piazza l'auto è stata colpita da sassi, bulloni, spranghe. Mimmo è uscito dalla macchina per andare a proteggersi dietro la macchina. C'è stata una sparatoria e Mimmo è stato colpito in mezzo alla fronte, e il proiettile, scoppiando, ha bruciato i centri motori. Ma la sua fortuna, ci hanno detto i medici, è stata quella di essere ambidestro, in quanto nel suo cervello erano “attivi” anche i centri nervosi della parte sinistra. Quando è arrivato all’ospedale le sue condizioni erano disperate. Noi famigliari dovevamo arrivare da Ottaviano (paesino ai piedi del Vesuvio, ndr) e quindi il suo superiore ha firmato le carte per l’operazione. Abbiamo avuto la fortuna che in quel momento era presente nell'ospedale di Roma Beniamino Guidetti, che era considerato uno dei migliori neurochirurghi al mondo. Per il cuore lo ha seguito un altro luminare, Christiaan Barnard. Anche dopo l’operazione non si sapeva se Mimmo sarebbe sopravvissuto e nemmeno 'come' sarebbe sopravvissuto”.
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La prognosi fu sciolta dopo 28 giorni e da lì in poi per Domenico Arboletti è iniziato un percorso riabilitativo che di fatto non si è mai concluso. “Negli anni successivi – racconta ancora Michele – mi sono occupato io di mio fratello. All’inizio non si muoveva e non parlava, la riabilitazione è durata tantissimo. Grazie all’intervento della Polizia, Mimmo ha avuto un posto nel centro di riabilitazione di Salsomaggiore, il migliore d’Italia, dove era molto difficile entrare. E’ stato curato lì per 24 mesi, ma ci stavamo due mesi e poi si faceva un mese a casa, altri due mesi e poi un mese a casa. E mi sono sempre occupato io di tutto, assieme ad altri tre fratelli, due dei quali nel frattempo sono morti. Mimmo piano piano ha recuperato l’uso della parte sinistra del corpo ed è in grado di camminare trascinando la gamba destra. Ha anche difficoltà nel linguaggio. Non è però mai tornato al lavoro, ha una pensione, ed è in grado di guidare con una macchina con tutti i comandi a sinistra. Abita a 500 metri da me, e tuttora gli faccio il bagno e lo aiuto a fare le cose che non riesce a fare da solo. Mimmo non ha recuperato del tutto, ma è tutt’ora appassionato di tutto ciò che riguarda la Polizia, ha i calendari, le penne ....”.
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La cosa più sorprendente è che, a differenza di decine di altri casi del genere, i familiari, stando a quanto riferisce Michele, si sono praticamente disinteressati delle sorti delle persone accusate di aver sparato. “So che sono stati condannati a 14 anni, e mi pare che uno dei due sia uscito diversi anni prima. Ma noi non abbiamo partecipato a nessuna udienza del processo e nessuno si è mai fatto vivo con noi. Per dimenticare ciò che era accaduto? No, la nostra unica preoccupazione era di aiutare Mimmo, non abbiamo chiesto risarcimenti a nessuno, non ci interessava. La politica? Gli estremisti? Non ci è mai interessato nulla di tutto questo, mio fratello stava facendo il suo lavoro di poliziotto, è successo quello che è successo, io l’ho aiutato a recuperare e appena ho potuto sono tornato al mio lavoro in un negozio di confezioni. Ora che sono in pensione vado regolarmente ad aiutarlo. Per lui e per noi è questo l’importante, il resto non conta”.
Nel 1977 il conflitto tra forze dell’ordine e “movimento” fu molto aspro. La tendenza ad identificare genericamente i poliziotti come nemici e strumento di politiche allora considerate “fasciste” era condivisa da molti militanti della sinistra extraparlamentare, mentre quella parlamentare, il PCI, prendeva quotidianamente le distanze dai “provocatori”, dagli "autonomi". Oggi come allora i giudizi “tranchant” diventano più difficili da pronunciare quando capita di imbattersi nelle storie dei singoli. La vicenda di Domenico Arboletti, ad esempio, riporta in qualche modo alla memoria - come semplice suggestione - la poesia di Pier Paolo Pasolini “Il PCI ai giovani” pubblicata sull’Espresso il 16 giugno 1968 dopo gli scontri di Valle Giulia in cui l’intellettuale accusava gli studenti di essere figli della borghesia, mostrando simpatia per i poliziotti, figli del "popolo". Una provocazione, anche questa tranchant. Ciò detto, ci sono pochi dubbi sul fatto che nel 1977 l’allora ministro dell’interno, Francesco Cossiga, ad un certo punto avesse deciso di usare “politicamente” le forze dell’ordine per centrare l’obiettivo “atlantista” di innalzare il livello dello scontro a soglie “sudamericane” in modo da isolare le frange più violente e da poter aumentare le misure repressive.
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La giornata del 2 febbraio rappresentò da questo punto di vista una sorta di scollinamento definitivo anche “grazie” a una parte dei manifestanti. Le foto di Tano D’Amico che ritraggono Leonardo Fontana con due pistole in mano (una era stata impugnata dall’amico che stava soccorrendo, Paolo Tomassini) sono state pubblicate per la prima volta nel 1997 perché, come ha spiegato lo stesso autore, non voleva che le immagini fossero usate per criminalizzare il ’77. Una sorta di "autocensura" per non dare ai media "lo scalpo del movimento". Gli scatti mostrano senza ombra di dubbio che prima della “nascita ufficiale” del Settantasette i manifestanti erano scesi in piazza armati, evidentemente pronti anche a fare fuoco. "Per proteggere il corteo da eventuali attacchi dei fascisti", fu detto nel processo.
Un elemento quello delle pistole che anche Alexander Langer, raccontando di averli visti scappare, omette di riferire, quasi certamente perché non abbastanza vicino da averle viste. In quel momento anche tra i manifestanti - moltissimi erano liceali - in pochi immaginavano che tra loro ci potessero essere persone armate, mentre la cosa sarebbe diventata quasi “normale” nel corso del '77. Sempre tra le foto di Tano D’Amico si possono vedere anche online altri scatti dei mesi successivi che ritraggono poliziotti in borghese camuffati da militanti di sinistra e armati di pistola, ed altre foto del 2 febbraio documentano il fatto che il poliziotto alla guida della 127 fosse effettivamente armato di mitra (ed infatti i manifestanti riferirono di aver udito delle sventagliate di mitra). Scene di guerra nel vero senso del termine.
Nella quarta di copertina del libro “Daddo e Paolo” edito da Derive e Approdi, casa editrice co-fondata da lo stesso Leonardo "Daddo" Fortuna, si legge:
“Nel 1977 c’è un nuovo soggetto politico in Italia, la generazione che va dai venti ai trent’anni. È il frutto della scolarizzazione di massa, dell’urbanizzazione delle periferie, della diffusione della militanza e di un’opinione di sinistra nei quartieri e nei luoghi di lavoro. Questa ricomposizione di classe diventa biografica. Daddo viene da una buona famiglia borghese romana che abita in un quartiere alto, alla Balduina, dove ci sono medici, avvocati, professori universitari; Paolo viene da Primavalle, un quartiere che sta sempre al limite tra la dignità proletaria e il degrado sottoproletario. La loro amicizia, la loro comune militanza è il prodotto di queste trasformazioni: entrambi stanno tradendo le loro origini, i loro quartieri, i loro destini. Come loro, migliaia di giovani, decine di migliaia. Per farsi strada, questo nuovo soggetto economico e politico sa che solo l’estremismo, l’illegalità, la violenza è il mezzo. Lo sa d’esperienza, non di testa. Contro tutto e contro tutti: contro i fascisti, contro la scuola, contro i riformisti, contro lo Stato, contro i padroni, contro la sinistra istituzionale (…) È il 2 febbraio 1977. A Roma c’è una manifestazione contro l’aggressione fascista del giorno prima all’Università. A piazza Indipendenza, si spara. Un fotografo continua a fare scatti …”.
Nel corso di una delle presentazioni del libro, uno degli autori, Lanfranco Caminiti sottolineerà “che Paolo e Daddo in piazza c’erano andati armati, e non è che uno va armato in piazza Indipendenza per sparare agli storni”; quelle foto, se pubblicate, avrebbero detto con implacabile immediatezza che “il movimento non è innocente, il movimento si va armando, e se si arma, ha perso tutta la sua innocenza”.
Questo è l'ultimo dei tre articoli che raccontano le storie dietro questa immagine. I primi due sono stati pubblicati il 28 novembre e il 6 dicembre.
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