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Camicie nere in Alto Adige

L'introduzione al nuovo volume del giornalista Maurizio Ferrandi e dello storico Hannes Obermair, “Camicie nere in Alto Adige (1921-1928)”, edito da alpha beta.
Camicie nere, bolzano
Foto: alpha beta
  • Una “fabbrica della nazione”, così si era presentato il fascismo italiano all’opinione pubblica sin dai suoi esordi immediatamente dopo la Grande Guerra. Sorta dalle ceneri di un conflitto europeo, e poi mondiale, tanto brutale in termini militari quanto devastante riguardo sia i vinti sia i vincitori, la vocazione dittatoriale in Italia in pochi anni prese il sopravvento sulle istanze riformiste, anticlericali e socialiste, pur esistenti in seno al movimento capeggiato da Benito Mussolini sin dalla sua fondazione nel marzo del 1919. Se questi elementi “progressisti” vennero meno più e più fino a dileguarsi del tutto in un turbinio reazionario, lo si dovette principalmente all’incanalatura bellicista e ultranazionalista che il fascismo da subito prese. Questa tendenza sciovinista, per non dire gingoista, caratterizzò il cosiddetto “Sansepolcrismo” dei primi Fasci di combattimento e prese viva forma nel mito fondativo di una “vittoria mutilata” la quale, nonostante i sacrifici del grande conflitto, sarebbe stata privata delle giuste ricompense.

    E qui entra, non da ultimo, la questione del Brennero. Visti frustrati molti degli obiettivi imperialisti italiani sul Balcano, promessi all’Italia belligerante al fianco degli Alleati nel Trattato di Londra del 1915, la conquista del Tirolo meridionale ebbe presto un doppio significato sia di compensazione, sia di segno tangibile della vittoria sull’”Austria delenda”. Anche il displuvio alpino era stato assicurato al Regno d’Italia nell’accordo londinese, e ne aveva facilitato l’uscita dal Tripartito. Vista l’innegabile presenza di importanti minoranze etnolinguistiche sia nella futura provincia di Bolzano, qui particolarmente compatte, ma pure nel Triestino e in Istria, più frammentarie ma copiose, era in questi territori che si doveva decidere per i decenni a venire il modello di rapporto tra lo Stato nazionale e la pluralità delle culture esistenti entro i suoi nuovi confini. L’Italia liberale e parlamentare, fino all’ottobre 1922, cercava con alterne fortune, e con indubbie tergiversazioni e palesi contraddizioni, di trovare un modus vivendi con l’elemento “alloglotto” e “allogeno” – già la denominazione stigmatizzante e discriminatoria dell’altro rivelava la profondo propensione dell’“Othering”, un estraniamento che intendeva rimarcare, con un’accezione in ultima istanza razzista, la differenza delle minoranze non italofone rispetto a una norma nazionale di dichiarata unidimensionalità linguistica e culturale.

    È in questo solco, che il presente volume intende muoversi. Esso si affida pertanto anche a una particolare semiotica, ai sensi di Susan Petrilli, che vede nelle terminologie e nelle verbalizzazioni le spie involontarie di processi politici e culturali di fondo. Il fascismo ha modificato la lingua, prima ancora della prassi sociale, indicando con chiarezza sufficiente il suo anelito totalitario. La sua traiettoria ideologica si sviluppava soprattutto sulla scorta del mito della romanità, ripescato e utilizzato per promuovere una funzione sedicente di civilizzazione. Nelle nuove provincie acquisite nel 1919/20, sprovviste di solide tradizioni italiane, era pertanto fondamentale saper reinventare l’apparato mitopoietico romano, ovviamente non senza piegando i fatti storici. Questa “invenzione della tradizione” era necessità impellente che si commisurava nel suo rifiuto da parte delle nuove minoranze tedesche e ladine, e doveva pertanto superare le tergiversazioni dello Stato liberale il quale fino al 1922 aveva istradato una coesistenza precaria con esse. Nell’ottobre del 1922, a ridosso della “Marcia su Bolzano”, Mussolini aveva dichiarato senza mezzi termini sull’organo ufficioso del Partito Nazionale Fascista, Il Popolo d’Italia:

    Saltiamo a Bolzano. Siamo nel campo della legge e del diritto italiano. Chi li ha tutelati? Il fascismo. Chi ha imposto l’italianità in una città che deve essere italiana? Il fascismo! Chi ha bandito quel Perathoner che per quattro anni ha tenuto in iscacco cinque ministeri italiani? È stato il fascismo, che ha dato una scuola agli italiani, una chiesa agli italiani, un senso di dignità agli italiani nell'Alto Adige! Chi ha collocato il busto del re nell'aula consiliare? (Il re, passando da Bolzano, se n'era dimenticato: evidentemente non ci teneva!). Il fascismo!

    È difficile non scorgere in queste righe squadriste, pubblicate poco prima dell’assalto al municipio di Bolzano, ma soprattutto alla vigilia della “Marcia su Roma”, quei riti di palingenesi così caratteristici del primo fascismo – in essi la rinascita pseudoreligiosa della nazione andavano di pari passo con la disumanizzazione del nemico, nel caso sudtirolese con una matrice etnica alquanto evidente. Inoltre, per un’analisi movimentista che riesca a concettualmente inquadrare meglio l’afflato autoritario e bonapartista delle origini fascista, assistiamo senz’altro a un modello graduale di escalation già evidenziato per il fascismo tedesco, nel quale si passa dalla fase della movimentazione “rivoluzionaria” a un periodo di consolidamento, raggiunto in Italia con la presa di potere nel 1922 (e nel 1933 in Germania), al pieno insediamento del regime e con esso la trasformazione totalitaria della società complessiva. Quest’interpretazione funzionalistica spiega meglio di un approccio intenzionalista, quanto sia stato centrale per l’ascesa al potere fascista la sua matrice e capacità di radicalizzazione cumulativa che gli conferiva una forza di penetrazione sociale dirompente. Essa trovava preziosa linfa dalla concorrenza culturale con il mondo slavo a Trieste, e con quello germanofono a Bolzano, traendo da questa avversione razzista la tentazione egemoniale del ultranazionalismo italiano e con essa tutta la sua retorica suprematista.

  • Il senatore fascista Ettore Tolomei: "L'apice retorico della campagna di denazionalizzazione del Sudtirolo si raggiunge con il suo discorso programmatico tenuto presso il Teatro civico di Bolzano il 15 luglio 1923". Foto: cultura.trentino.it

    L'ascesa al potere fascista trovava preziosa linfa dalla concorrenza culturale con il mondo slavo a Trieste, e con quello germanofono a Bolzano, traendo da questa avversione razzista la tentazione egemoniale del ultranazionalismo italiano e con essa tutta la sua retorica suprematista.

  • Lo stato delle ricerche

    Le linee interpretative del primo fascismo in Alto Adige, da quando la ricerca storica se ne è occupata più convintamente, sono essenzialmente due. Una risale a un filone che potremmo definire di “narrazione nazionale”, il quale scaturisce dagli studi di Mario Toscano, egli stesso già membro del Partito Nazionale Fascista e importante diplomatico dell’Italia postbellica. La sua Storia diplomatica della questione dell'Alto Adige del 1967 fu a lungo l’unica trattazione sistematica del tema sudtirolese da parte italiana. Scritta da un punto di vista paternalistico e di difesa delle istanze nazionali in Alto Adige in un periodo travagliato e contraddistinto sia dal terrorismo sudtirolese sia dal percorso verso una soluzione diplomatica del conflitto austriaco-italiano della “questione dell’Alto Adige”, Toscano tendeva palesemente a minimizzare l’impatto del fascismo nella zona di confine, sottolineando invece la legittimità di uno stato monarchico prima e repubblicano dopo che aveva guadagnato il territorio attraverso un’azione di guerra e preservato grazie a trattati internazionali. Questa narrazione legittimatoria si rifaceva a sua volta a testi del Ventennio, senza apertamente citarli, e ritornerà in ogni trattazione dell’argomento scritta da esponenti della destra politica del secondo dopoguerra. 

    A questa visione edulcorata si contrapponeva, da parte di lingua tedesca, una tradizione storiografica che metteva in risalto il carattere di profonda ingiustizia e di violenta vessazione che la fase dittatoriale aveva acquisito rispetto alla popolazione germanofona e ladina, spesso attingendo a sua volta a motivi ideologici di tipo “völkisch”. Già presente sin dagli anni Trenta, con opere di aperta denuncia dell’operato fascista, tra cui spicca per accuratezza e verve la monografia di Eduard Reut-Nicolussi del 1928, essa venne rivificata degli anni Sessanta a quelli Ottanta da autori di provenienza conservatrice quali Karl-Heinz Ritschel, Alfons Gruber e Othmar Parteli, nel contesto poco prima e dopo l’attuazione del secondo statuto d’autonomia.

    Queste traiettorie contrapposte, ma simili e per l’attitudine essenzialista e per la connotazione politica di fondo, si ramifica ulteriormente nel nuovo millennio nelle estreme destre tedesche e italiane che in Alto Adige attingono a piene mani alle paure primigenie di paventate perdite di identità, sfruttandole politicamente per i loro scopi. Quest’idra risolleva la testa sia negli ambiti neofascisti sia in quelli neonazisti, soprattutto su Internet, e gode – in un ambiente politico nazionale caratterizzata dalle destre al potere, di importanti supporti pubblici che confluiscono nella tendenza generale a rinazionalizzare anche il racconto storico in una chiave apologetica.

    Un certo distacco scientifico rispetto al fenomeno storico del fascismo in provincia di Bolzano, e un rinnovato orientamento verso la produzione storiografica internazionale, ha invece prodotto, sin dagli anni Novanta del Novecento, nuove importanti disanime, tra cui spiccano per completezza d’interpretazione e imparzialità di giudizio i contributi di Stefan Lechner. Diversi microstudi hanno contribuito a arricchire il quadro di una politica autoritaria prima e totalitaria dal 1925/26 in poi, che ha voluto plasmare e colonizzare, con esiti alternanti, anche i più remoti anfratti della regione più settentrionale d’Italia. Appare peraltro significativo che i lavori più significativi di questa stagione si devono esclusivamente ad autori e autrici di lingua tedesca. Ciò potrebbe essere il riflesso della mancanza di uno “Steurer italiano” che abbia con forza sgomberato il campo degli studi sul fascismo italiano in Alto Adige da ogni preconcetto e indugio come lo aveva appunto fatto Leopold Steurer, a sua volta influenzato da Claus Gatterer, con il nazismo sudtirolese nel suo volume seminale del 1980 e nella sua susseguente ricerca. Questo ruolo decisivo di un game-changer storiografico sembra invece mancare nell’ambito della ricerca regionale in lingua italiana, con tutti gli effetti di lunga durata che questa lacuna ha prodotto sulle riflessioni critiche rispetto all’esperienza fascista in Alto Adige. È solo nel 2006, che un volume bilingue affrontava sistematicamente le diverse questioni di ricerca che il periodo fascista pone, proponendo lo sguardo doppio della ricerca regionale e quella nazionale, con alcuni dei loro rappresentanti più significativi.

    Questo ruolo decisivo di un game-changer storiografico sembra invece mancare nell’ambito della ricerca regionale in lingua italiana, con tutti gli effetti di lunga durata che questa lacuna ha prodotto sulle riflessioni critiche rispetto all’esperienza fascista in Alto Adige. 

    Comunque sia, quattro sembrano essere gli aspetti principali che nel frattempo sono emersi quali nuove zone di indagine prolifica e di azione pubblica, di seguito solo brevemente indicati. In primis, è stato rivalutato il periodo antecedente la presa di potere fascista, ovvero gli anni tra la fine della Prima guerra mondiale e l’ascesa del movimento mussoliniano. Se visto da una larga prospettiva economica, culturale, sociale e politica, questo “tempo sospeso” offre l’occasione di ripensare la storia regionale, smentendo da un lato il mito del vittimismo sudtirolese che dell’indubbia oppressione fascista ha fatto la sua bandiera, ma anche mettendo in luce il valore intrinseco di questi brevi anni di transizione, vera fucina e laboratorio degli assetti futuri.

    Una originale rivisitazione degli studi sul fascismo è poi dovuta al paradigma postcoloniale che grazie agli studi di Mia Fuller e Roberta Pergher ha iniziato a riguardare anche l’Alto Adige. Entrambe le autrici, con un approccio antropologico, si concentrano sull'impatto fisico, economico e mentale che la dominazione italo-fascista ha avuto sulle minoranze sia all’interno della penisola sia nelle terre d’Africa occupate. Ne nasce un quadro assai interessante che vede nelle asimmetrie sistemiche in entrambi i casi un punto di raccordo delle politiche razziste del regime. Seppur questo assunto è stato recentemente avversato dalla scuola più tradizionale, esso risulta valido se messo in relazione con gli studi più avanzati dell’area angloamericana che hanno messo in evidenza come proprio il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale abbia informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo. Anche il movimento anticoloniale si è recentemente occupato delle tracce razziste presenti a Bolzano.

    Nel concerto delle riconsiderazioni sul Ventennio in regione, una chiave importante, se non di svolta, hanno rappresentato i monumenti fascisti ancora presenti soprattutto a Bolzano. Essi sono stati, dagli anni Dieci del Duemila in poi, oggetto di una rivisitazione in chiave non iconoclasta che ne ha fatto di loro, tramite una trasformazione critica, secondo il modello dell’explain & retain, luoghi di memoria riflessiva sul periodo totalitario. Un gruppo di esperti ha potuto predisporre nel Monumento alla Vittoria, opera fascistissima di Marcello Piacentini del 1926/28, un percorso espositivo permanente che tratta in modo esaustivo entrambi i totalitarismi presenti in regione, ovvero il fascismo italiano e il suo omologo nazista; lo stesso collettivo si è poi impegnato a ricontestualizzare l’ex casa del Fascio di Bolzano, oggi sede di ministeri, il cui fregio monumentale recante un duce a cavallo e il racconto fascista della società totalitaria fu efficacemente depotenziato e risemantizzato con l’apposizione di una citazione della filosofa Hannah Arendt. Uscendo dalle sacche improduttive della Cancel Culture, quello che presto fu chiamato “the Bolzano way” ha attratto l’interesse anche internazionale rispetto a una forma di Public history che generasse anche effetti di pacificazione memoriale all’interno di una società multietnica. 

    Uscendo dalle sacche improduttive della Cancel Culture, quello che presto fu chiamato “the Bolzano way” ha attratto l’interesse anche internazionale rispetto a una forma di Public history che generasse anche effetti di pacificazione memoriale all’interno di una società multietnica. 

  • La scritta luminosa sull'ex casa del fascio in piazza Tribunale a Bolzano: "Il fregio monumentale recante un duce a cavallo e il racconto fascista della società totalitaria efficacemente depotenziato e risemantizzato con l’apposizione di una citazione della filosofa Hannah Arendt". Foto: LPA/Oskar Verant
  • Un fascismo di confine

    Una quarta ed ultima dimensione che merita una considerazione a parte è rappresentata dalla produttiva nozione di un “fascismo di confine”. Il fortunato concetto fu introdotto da Anna Maria Vinci, sulla scorta di una semantica già presente nel fascismo delle origini stesso il quale lo aveva scelto fin dal 1919 per sottolineare la sua specifica identità squadrista nell’ambito territoriale del Friuli e della Venezia Giulia, ma ora ovviamente categoria rivoltata con un’accezione critica. Essa persegue una finalità analitica che di seguito è stata estesa anche alla provincia di Bolzano, e va oltre la convinzione che il dibattito attorno a tali tematiche non possa dirsi comunque esaurito, nonostante la riflessione storica sul fascismo regionale abbia prodotto studi e ricerche importanti come abbiamo visto. Si ritiene infatti che insistere sull’importanza di proseguire una riflessione sui nodi del Novecento, in questo caso sul fascismo, e avanzare nella ricerca storica, costituisca la premessa per portare anche la discussione pubblica su quel periodo su piani non ideologici e non politicamente strumentali. Il frequente ricorso all’uso politico della storia, come “ricostruzione polemica di eventi a partire dalla memoria di un gruppo”, impegna soprattutto in Alto Adige a qualificare la “domanda di storia” come elemento centrale e strategico per l’avanzamento dei processi di convivenza civile e di crescita democratica.

    Il progetto storiografico interessa numerose questioni: il rapporto tra fascismo e nazionalismo in termini di contenuti e di uomini; il ruolo del fascismo di confine per l’affermazione del fascismo; le modalità con cui si è espresso il radicalismo della snazionalizzazione nei confronti delle minoranze; i rapporti con la Chiesa cattolica, unica istituzione con cui il fascismo deve misurarsi dopo il 1922.

    Indipendentemente dagli esiti ultimi della ricerca, confrontare la storia dell’avvento del fascismo e del suo sviluppo nelle zone di confine può permetterci di definire meglio analogie e differenze e consentirci di elaborare interpretazioni sempre più raffinate, su un periodo che ha profondamente segnato anche la storia del dopoguerra. Senza contare che, da un punto di vista metodologico, l’approccio comparativo garantisce di tenerci lontani dal rischio di non essere risucchiati dalla piccola storia. Il già ricordato Claus Gatterer, nel suo celebre Im Kampf gegen Rom, aveva rilevato ancora alla fine degli anni Sessanta del Novecento, che affrontare il tema del fascismo nei territori di confine significava anche spiegare come la sorte delle minoranze, fosse una parte soltanto di un destino che coinvolse l’Italia intera, anche se naturalmente aggravata dal fatto che tali minoranze ritennero in un certo senso di essere colpite due volte, dai fascisti e dagli italiani. Si capisce così – continuava lo storico sudtirolese - anche come fra gli slavi e i tirolesi, appena incorporati in Italia, si impose l’identificazione italiano = fascista, un’identificazione che condizionò per molti aspetti e per lungo tempo ogni loro atteggiamento verso l’Italia.

    Claus Gatterer, nel suo celebre Im Kampf gegen Rom, aveva rilevato che affrontare il tema del fascismo nei territori di confine significava anche spiegare come la sorte delle minoranze fosse una parte soltanto di un destino che coinvolse l’Italia intera, anche se naturalmente aggravata dal fatto che tali minoranze ritennero in un certo senso di essere colpite due volte, dai fascisti e dagli italiani.

    Con questa premessa può essere estesa la riflessione alla costruzione dei miti della Patria e dell’identità nazionale, all’utilizzo dello strumentario colonialista per la conquista dei nuovi territori, alla risposta che diedero le élite locali, ai rapporti con gli stati confinanti, tanto che risulta del tutto evidente come si tratti di questioni, la cui rilevanza travalica il puro dibattito tra gli storici e le storiche.

    Vediamo così che nel gennaio 1923, con la mediazione del sindaco provvisorio di Bolzano, Augusto Guerriero, si svolsero effettivamente dei colloqui tra il leader fascista locale Luigi Barbesino e il Deutscher Verband, il blocco dei partiti tedeschi in Alto Adige formatosi nel 1919 e ufficialmente sciolto dal regime nel 1926 - esso era riuscito, nelle elezioni politiche del 1921, a raccogliere oltre il 90 % dei voti nel collegio di Bolzano e di conquistare così tutti i quattro seggi disponibili alla Camera dei deputati, mentre si vide ridurre, nelle elezioni semilibere del 1924, i seggi a due eletti. Mussolini era a conoscenza delle trattative per un accordo, ma evitò saggiamente di farsi coinvolgere in prima persona. Il risultato raggiunto a febbraio noto come effimera "tregua di Bolzano", il cosiddetto Burgfriede, prevedeva sostanzialmente la rinuncia a qualsiasi tipo di politica irredentista da parte della federazione partitica tedesca, mentre il Fascio non doveva prendere misure spinte di italianizzazione. A marzo, però, il Gran Consiglio fascista non approvò l'accordo perché i Fasci non erano disposti ad accettare questa forma di pacificazione che in qualche modo avrebbe confermato uno status quo entro il quale le tradizionali élite di lingua tedesca, assieme a una maggioranza demografica di lingua tedesca schiacciante, sarebbero risultati dominanti. I fascisti locali pertanto non erano disposti a fare alcuna concessione. Allo stesso tempo contemporaneamente fu annunciata una campagna di denazionalizzazione che raggiunse il suo apice retorico nel discorso programmatico tenuto da Ettore Tolomei presso il Teatro civico di Bolzano il 15 luglio 1923. Già il 1 luglio il Governo fascista aveva varato i “Provvedimenti per l’Alto Adige”, ed aver lasciato a Tolomei l’onere e l’onore di illustrare la nuova politica ufficiale verso l’elemento “allogeno” fa capire quanto Mussolini stesso voleva che si intendesse da parte dei diretti interessati che il fascismo ora voleva fare sul serio. Però con queste considerazioni preliminari entriamo già nel merito delle pagine che seguono e pertanto le interrompiamo qui.

    Per concludere queste note introduttive, rimane sempre aperta una questione fondamentale che non ha avuto sinora risposta veramente soddisfacente, ovvero perché il fascismo è nato proprio in Italia e se si poteva evitarlo; se anche questo volume contribuirà a dare qualche elemento chiarificatore, lo dovrà alla particolare situazione liminale del territorio d’indagine dal quale nasce e il quale affronta – quella configurazione chiamata Alto Adige o Südtirol che da ormai un secolo e mezzo è terra di contrapposti nazionalismi e laboratorio di etnocentrismi, ma anche fucina di convivenza e di commistione, intellettuale, politica e sociale.

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Luca Marcon Di., 07.11.2023 - 06:59

«Seppur questo assunto è stato recentemente avversato dalla scuola più tradizionale, esso risulta valido se messo in relazione con gli studi più avanzati dell’area angloamericana che hanno messo in evidenza come proprio il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale abbia informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo. Anche il movimento anticoloniale si è recentemente occupato delle tracce razziste presenti a Bolzano.»
Dal punto di vista scientifico e storico, trovo i citati «studi più avanzati dell’area angloamericana», laddove essi sostenessero veramente che «il progetto egemoniale e di razzismo culturale del fascismo in Africa orientale abbia informato le politiche genocidali della Germania nazista nell’Est europeo», semplicemente deliranti.

Di., 07.11.2023 - 06:59 Permalink