Mass
Sì, è quel periodo dell’anno da encefalogramma piatto in termini di cose da vedere al cinema (per tutto il resto c’è l’opuscolo del recupero). Sì, è caccia aperta alle chicche. La preda del giorno è Mass, scritto e diretto da Fran Kranz al suo esordio alla regia.
Cos’è
La storia si svolge anni dopo una strage in una scuola americana. Un tema che, in particolare dopo il massacro della Columbine High School del 1999 nel Colorado, avevano già esplorato registi come Gus Van Sant in Elephant, vincitore della Palma d'oro al miglior film e del premio per la miglior regia al 56º Festival di Cannes, e Michael Moore in Bowling for Columbine, premiato con l’Oscar per il miglior documentario nel 2003.
Mass - girato con quattro soldi in appena 14 giorni - fa un’operazione diversa, indaga gli effetti della tragedia - ispirata in questo caso alla strage avvenuta alla Marjory Stoneman Douglas High School di Parkland il 14 febbraio 2018 - su quelli che restano. Jay e Gail Perry (Jason Isaacs e Martha Plimpton) sono i genitori di un adolescente - uno dei dieci uccisi in una sparatoria a scuola sei anni prima - alla ricerca di risposte. Richard e Linda (Reed Birney e Ann Dowd) sono i genitori del killer, suicidatosi dopo aver assassinato gli studenti. Le due coppie accettano di incontrarsi in una chiesa episcopale e di sedersi attorno a un tavolo per parlarsi e provare a trovare una qualche forma di pace.
Com’è
È un film teatrale nello stile e la struttura, nel senso che sembra tratto da un’opera teatrale pur non essendolo, ma la mise en scène si adatta allo schermo senza sbavature o forzature. A parte brevi momenti in cui sono in scena una mediatrice (Michelle N. Carter) che si occupa dei dettagli dell’incontro fra i quattro genitori e una giovane e fin troppo zelante parrocchiana (Breeda Wool) che fa volontariato in chiesa, l’intero film si regge sulle (larghe) spalle dei quattro protagonisti che si “affrontano” in una stanza, praticamente l’unica location del film. Ne esce un affresco del dolore (e della compassione) intimo e rigoroso che scansa le trappole del melodramma, toccante senza che le lacrime siano estratte con una trivella, che si risolve in un racconto catartico sulla possibilità del perdono - e sul relativo scollamento fra teoria e pratica - di fronte a ingiustizie indicibili. Resta al margine - perché distrarrebbe dal dramma umano - la questione politica e culturale del possesso e del controllo delle armi da fuoco negli Stati Uniti.
Ne esce un affresco del dolore (e della compassione) intimo e rigoroso che scansa le trappole del melodramma, toccante senza che le lacrime siano estratte con una trivella, che si risolve in un racconto catartico sulla possibilità del perdono - e sul relativo scollamento fra teoria e pratica - di fronte a ingiustizie indicibili
Nel seminterrato della chiesa, in una sala riunioni scarna, le due coppie si salutano, si tolgono i cappotti, iniziano a fare small talk. L’atmosfera è tesa, circospetta e ancora non ne è chiaro il motivo. Kranz sceglie infatti di rivelare attraverso la sceneggiatura i dettagli della trama e le prospettive di ciascun membro del quartetto man mano che la conversazione scende in acque più profonde e lo sforzo di articolare i propri sentimenti si fa più intenso. Gail/Plimpton ammanettata alla rabbia sepolta di una madre che ha perduto un figlio per un atto di estrema e gratuita violenza; la Linda di Ann Dowd - in “modalità Hereditary” - condiscendente, placida e conciliante come un guaritore spirituale; Jay/Isaacs che per elaborare il lutto si è buttato nell’attivismo cercando il fragile conforto della ragione; Richard/Birney, il più composto nel suo completo in giacca e cravatta, che punta risoluto sull’approccio autoprotettivo. Ritratti, questi, che sfumano quando progressivamente ognuno di loro molla i propri freni difensivi fino al climax finale, restituendo sul piano attoriale interpretazioni “reali” più che “realistiche”. Il risultato è un film difficile, non solo per l’argomento trattato, ma anche per la sua cruda, spiazzante onestà.