Kultur | Ex Libris

Nulla materno

Il libro di Christine Vescoli affronta un tema tanto antico quanto attuale: il rapporto d’amore tra madre e figlia, il lutto come ricerca di verità. Un estratto dal libro.
Foto
Foto: Edizioni Alphabeta Verlag
  • Ex libris

    Questo estratto dal libro di Christine Vescoli segna il lancio del nuovo formato “Ex libris” su SALTO, dove vengono serviti “assaggi” di opere letterarie a intervalli regolari.

    Mit diesem Auszug aus dem Buch von Christine Vescoli startet das neue Format "Ex libris" auf SALTO. In regelmäßigen Abständen werden "Kostproben" aus literarischen Werken serviert.

    Mamma abbassava gli occhi, quando si faceva pensierosa e spariva dentro di sé. Fissava un punto a terra. Da qualche parte ce n’era sempre uno. A volte era sul tavolo. Allora le sue dita ci passavano sopra piano e disegnavano linee invisibili sul telo della tovaglia stirata. Inclinava la testa, e io ero convinta che si sarebbe spezzata di lì a poco. Di colpo, però, si risollevava, e la sua voce era perfettamente chiara, tanto che non capivo da dove venisse, se solo poco prima avevo pensato che il nulla – quell’inetto – si sarebbe di nuovo posato su di lei.
    Quando il suo sguardo tornava su di me, volevo chiederle: dove sei stata, mamma?
    Non chiedevo. Non chiedevo mai.
    Era lì a portata di mano. Lo aveva sempre con sé. Il nulla era più affidabile del suo buon Dio. Se ne avesse bisogno o lo evitasse, quello volevo capire. Essere nulla e non essere erano un tutt’uno per mia madre.
    Questo accadeva un po’ di tempo fa. Non la vedo più fissare il punto sulla tovaglia. Non vedo più la sua testa chinarsi. Non la vedo risollevarsi, e nemmeno il suo sguardo, che impedisce al mio di seguire il suo. Che cosa ci vedeva? Vedeva che non riusciva a insinuarsi nel telo nello stesso modo in cui vi si infilava il suo? Voleva sbarazzarsene, liberarsene, disperderlo? Seguivo le sue linee, che spesso erano cerchi, cercavo di distinguervi qualcosa, una forma, una figura o una scritta sui fili del telo. Non c’era scritto niente. Restavano solo le linee e i fili invisibili, i fili cautamente tirati da un gomitolo di lana materna che, come un gattino, cercavo di afferrare.
    Le linee procedevano oltre, si trasformavano in spirali. Le sue dita scivolavano come pattini senza ballerini. Io le seguivo, temendo che si interrompessero, sperando che lo facessero e liberassero lo sguardo di mamma. Non si interrompevano. E nemmeno precipitavano. Il suo sguardo riaffiorava e mi guardava come se non fosse mai non stata lì. Forse era la paura l’una dell’altra il luogo a cui appartenevamo entrambe. In cui ci nascondevamo l’una dall’altra mentre ci guardavamo l’un l’altra.

  • Da dove iniziare?: Come può una figlia raccontare la storia della madre, che si è portata alle spalle, per l’intera sua esistenza, un “nulla” onnipresente eppure mai tangibile? È possibile finalmente scoprire, dopo la sua morte, ciò che le ha taciuto e nascosto di sé? Da dove iniziare? Come intrecciare frammenti sussurrati di ricordi, ostinate reticenze, fotografie sbiadite, testimonianze lontane, mere supposizioni? Da una vicenda personale prende così forma un affresco familiare a tinte cupe, la ricostruzione, fedele e arbi-traria a un tempo, di una dimensione profondamente rurale, di una vita segnata da asprezza e miseria, da inedia e silenzi, da atavici sensi di colpa e un perpetuo sentimento di “non appartenenza”. Foto: Edizioni Alphabeta Verlag

    A volte vado sulla sua tomba. Davanti a me la lapide con il nome, la foto, la data di nascita e di morte. In mezzo la sua vita, uno spazio vuoto sulla lapide tra due date. Senza un trattino tra loro. Nulla che unisca le cifre. Forse solo i miei occhi, incollati alla lastra di pietra.
    Cerco di parlare con lei. Non funziona. Non riesco a parlare a mia madre come se mi potesse sentire, sottoterra o ovunque sia. Come se la terra fosse la scriminatura che pettina la vita qui e la morte là e il mio ciangottio ci intrecciasse di nuovo insieme. Non funziona. Non so cosa sia una madre morta. Posso pensare la mia mamma com’era, piccola, gracile e pieveloce. Posso pensarla in silenzio, rumorosa, infuriata o triste. Posso pensarla in tutti i modi, fiera, taciturna o titubante, forte, debole, abbattuta, spaventata. Le immagini ci sono. Si muovono, incedono o si assopiscono.
    Ce l’ho in testa, ho il ricordo. Ma non un’immagine di una madre morta. Non so dove metterla. Con quale parte di lei coincide la parola “morta”? Pensavo di conoscerla, la usavo non diversamente da “grande”, “dolce”, “rosso” o “stupido”. La prendevo in bocca ed era un tutt’uno con la mia idea. Con mamma non regge. Mi tintinna in testa come noccioli secchi in una scatolina vuota. È la parola più sola del mondo.
    Bagno i fiori con l’annaffiatoio in plastica del cimitero. Strappo le foglie appassite dalla rosa canina, deglutisco, mi picchietto via dalla gonna i pollini depositati dalle piante del cimitero. Rimango ferma un istante. Poi me ne vado.
    Non ho paura di dimenticare, come se la scomparsa seguisse dappresso la morte. Ci sono gli istanti che cadono di traverso nei momenti. A volte entrano di soppiatto da una finestra come vagabondi, svuotano il frigorifero e si lasciano dietro un berretto o un accendino. Altre sono gli addii che ci sono stati. Io che entravo attraverso il cancello del giardino e lei che mi veniva incontro come una bambina che ride ignara, benché contasse le volte in cui mi avrebbe ancora aperto il cancello del giardino. Le volte che a un certo punto sarebbero diventate le ultime. 

    […]

  • Presentazione del libro

    Lunedì 10. 3. ore 17.30 con l'autrice Christine Vescoli. In dialogo con Stefano Zangrando e Cristina Vezzaro. Foto: Edizioni Alphabeta Verlag

    Mi ha lasciato il suo nulla. Inesistente, esiste, proprio dietro di lei. A volte penso: un angelo nero. Oppure una legge alle sue spalle di cui lei era l’esecutivo. Ora quello spazio è vuoto, con la sua morte si è liberato. Dovrei quindi riuscire a vedere cos’era, ciò che mamma aveva alle spalle. Dovrei riuscire a vederlo, il bene ereditato, lasciato in dono a me, la figlia amata e cucita ciecamente a sé, e splenderebbe al mio orecchio, al mio dito, sul mio petto, luccicherebbe più di qualsiasi brillante che potrei infilarmi o sfilarmi o vendere, e potrei valutare con cosa barattarlo. Ma non è così. Se l’è portato, come si dice, nella tomba.
    Che ci sia davvero stato? E come scrivere di un nulla da cui non si può presumibilmente ricavare nulla se non un altro nulla?

    […]

  • Ciò che di mamma era invisibile. Lo avevo davanti agli occhi e non riuscivo a vederlo. È quel che mamma ha reso invisibile. Un buco in mezzo alla vita. La nebbia in mezzo all’immagine ingiallita. Un nulla che è lì.
    Forse il nulla materno si è rintanato, sopravvive attraverso il silenzio instillato in me, e io di nuovo non riesco a vederlo. È lui che mi scivola in corpo e mi penetra in pancia, si spinge nelle viscere e ne logora le pareti, raschia e si allarga, mentre io continuo a pensare che sia aria, nient’altro che aria. Ma perfino l’aria è dolore in pancia, un crampo infernale nella lotta per trovare un centro. Che sia dolore, che sia aria, che non sia un nonnulla a pungolare? Mi strattona e trascina dietro all’ombelico, mi tira verso un unico punto e mi strina in un sibilo cristallino. Mi brucia buchi al centro. Mi scava buchi in pancia. Buchi nel corpo, buchi attraverso cui la paura mi penetra dentro e colpisce. Mi strappa via le calze dalle cosce e me le mette attorno al collo, mi assale e non mi molla, mi fa trasalire con un tremito, torna a piegarmi fino a che lascio uno spiraglio alla paura, nel nulla di mia madre, e mi dichiaro io stessa colpevole per la nudità espressa, concessa.
    Basta. Adesso voglio vederlo. Voglio avere il suo nulla davanti come la sua fotografia, come l’orologio, il vaso. Quel che ne resta. Adesso che non è più sovrana del suo silenzio, che regna anche senza di lei, non può più sfuggirmi. Andarsene con la morte, sbattermi la porta in faccia e portarsi via la mia scrittura, lasciandomi in piedi a una fermata, ad aspettare l’autobus della mia vita che non passerà. Voglio afferrarlo, con tutte e due le mani. Voglio, se necessario, agguantarlo alla gola e stringerlo fino a che rantola e io riesco a ottenere ciò che volevo, le sue ultime parole e il suo nome. Non può essere stata un’illusione in cui giocare con me, non può restare una paura di noi, vuota, infondata, incontrastata, insensata, muta e vana, spenta come una stella nera, estinta, sciolta e pesante come catrame, null’altro che infinitamente triste. Mamma, voglio vedere cosa mi hai tenuto nascosto, benché ci fosse sempre. 
    Diffido già di me stessa. Riuscirò a distinguere una scomparsa e ciò che con lei è scomparso da quello che c’è? Come se non ci fosse già più? Voglio scinderlo, come voleva mamma? 
    Mi teneva stretta al suo fianco, mi ammetteva fino alla soglia, dopodiché la vedevo sparire. La sorvegliava, quella soglia che separava rigidamente la vita che dividevo con lei da ciò che doveva essere solo suo. Voglio ora fare lo stesso? Voglio parlare dell’uno, del suo nulla, come se non fosse anche l’altro, vale a dire la sua vita?
    Così racconto.
    Che ci sia davvero stato? E come scrivere di un nulla da cui non si può presumibilmente ricavare nulla se non un altro nulla?
     

    Basta. Adesso voglio vederlo. Voglio avere il suo nulla davanti come la sua fotografia, come l’orologio, il vaso. Quel che ne resta. 

    […]

  • Christine Vescoli: Ha svolto studi in Germanistica e Storia dell’Arte all’università di Vienna, laureandosi con una tesi su Robert Walser. Attualmente è insegnante di liceo, editor e pubblicista. Si occupa, tra l’altro, di critica letteraria per la “Neue Südtiroler Ta-geszeitung”. Dal 2009 è direttrice dell’associazione Literatur Lana, per cui dirige la rivista “Adligat”, nonché curatrice dei Literaturtage Lana, la più prestigiosa rasse-gna letteraria internazionale in Alto Adige/Südtirol. Mutternichts (Nulla materno) è il suo sorprendente esor-dio letterario, segnato da uno straordinario successo di pubblico e critica in Austria e Germania. Foto: Edizioni Alpha Beta Verlag

    Ciò che di mamma era invisibile. Lo avevo davanti agli occhi e non riuscivo a vederlo. È quel che mamma ha reso invisibile. Un buco in mezzo alla vita. La nebbia in mezzo all’immagine ingiallita. Un nulla che è lì.
    Forse il nulla materno si è rintanato, sopravvive attraverso il silenzio instillato in me, e io di nuovo non riesco a vederlo. È lui che mi scivola in corpo e mi penetra in pancia, si spinge nelle viscere e ne logora le pareti, raschia e si allarga, mentre io continuo a pensare che sia aria, nient’altro che aria. Ma perfino l’aria è dolore in pancia, un crampo infernale nella lotta per trovare un centro. Che sia dolore, che sia aria, che non sia un nonnulla a pungolare? Mi strattona e trascina dietro all’ombelico, mi tira verso un unico punto e mi strina in un sibilo cristallino. Mi brucia buchi al centro. Mi scava buchi in pancia. Buchi nel corpo, buchi attraverso cui la paura mi penetra dentro e colpisce. Mi strappa via le calze dalle cosce e me le mette attorno al collo, mi assale e non mi molla, mi fa trasalire con un tremito, torna a piegarmi fino a che lascio uno spiraglio alla paura, nel nulla di mia madre, e mi dichiaro io stessa colpevole per la nudità espressa, concessa.
    Basta. Adesso voglio vederlo. Voglio avere il suo nulla davanti come la sua fotografia, come l’orologio, il vaso. Quel che ne resta. Adesso che non è più sovrana del suo silenzio, che regna anche senza di lei, non può più sfuggirmi. Andarsene con la morte, sbattermi la porta in faccia e portarsi via la mia scrittura, lasciandomi in piedi a una fermata, ad aspettare l’autobus della mia vita che non passerà. Voglio afferrarlo, con tutte e due le mani. Voglio, se necessario, agguantarlo alla gola e stringerlo fino a che rantola e io riesco a ottenere ciò che volevo, le sue ultime parole e il suo nome. Non può essere stata un’illusione in cui giocare con me, non può restare una paura di noi, vuota, infondata, incontrastata, insensata, muta e vana, spenta come una stella nera, estinta, sciolta e pesante come catrame, null’altro che infinitamente triste. Mamma, voglio vedere cosa mi hai tenuto nascosto, benché ci fosse sempre. 
    Diffido già di me stessa. Riuscirò a distinguere una scomparsa e ciò che con lei è scomparso da quello che c’è? Come se non ci fosse già più? Voglio scinderlo, come voleva mamma? 
    Mi teneva stretta al suo fianco, mi ammetteva fino alla soglia, dopodiché la vedevo sparire. La sorvegliava, quella soglia che separava rigidamente la vita che dividevo con lei da ciò che doveva essere solo suo. Voglio ora fare lo stesso? Voglio parlare dell’uno, del suo nulla, come se non fosse anche l’altro, vale a dire la sua vita?
    Così racconto.

  • Testo: Christine Vescoli / Traduzione: Cristina Vezzaro / Casa editrice: Edizioni Alphabeta Verlag