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La meravigliosa bugia

Il regista Daniele Ciprì, giurato per la categoria miglior lungometraggio al BFFB, sulla decadenza del cinema, la spocchia degli italiani e la lezione di Kubrick.
Daniele Ciprì
Foto: Salto.bz

salto.bz: Ciprì, non è la sua prima volta nei panni del giurato in una kermesse cinematografica, ma è la prima al Bolzano Film Festival Bozen che si chiuderà domani, 9 aprile. Quali sono le sue impressioni?
Daniele Ciprì
: Il cinema italiano in gara mi ha dato grandi soddisfazioni, in generale trovo che non ci sia un'altissima qualità nei lungometraggi in concorso, ma traspare una grande volontà da parte degli autori. C’è chi ha il mestiere e chi no e chi ha la tendenza a riproporre cose già viste. In ogni caso il Festival è un'ottima occasione per vedere dei film che sarebbe praticamente impossibile trovare altrove ed è un modo per poter garantire alla città la settima arte.

I suoi criteri con i quali sceglierà il film più meritevole?
La prima cosa è che deve esserci un’attenzione nel raccontare la condizione dell’uomo, attraverso i temi che si preferisce trattare, dall’amore, alla violenza, all’opportunismo, alla prostituzione. Poi, molto banalmente, è fondamentale una forma filmica che riveli il punto di vista dell’autore.

Cosa ha imparato facendo il giurato?
Mi ha fatto crescere una giuria fatta insieme a Bryan Singer al Torino Film Festival, più di 20 anni fa. Non reputo Singer un grande autore, credo che l’unico film che gli sia riuscito è I soliti sospetti, eppure è stata l’occasione per me di confrontarmi con un altro modo di vedere le cose. Lui voleva premiare un film europeo, gli americani hanno il pallino per il cinema europeo anche se poi sono fondamentalmente degli ignoranti in materia, e io lottavo per un film muto.  

"Si sta andando in un senso opposto rispetto a quella che è la funzione del cinema, ovvero emozionare attraverso le immagini, ora vedo separazioni nette, un'estetica che spesso non è funzionale alla storia"

Cosa non va nel cinema contemporaneo?
C’è un problema nel cinema europeo e non solo. Non è pessimismo ma è evidente che si sta andando in un senso opposto rispetto a quella che è la funzione del cinema, ovvero emozionare attraverso le immagini, ora vedo separazioni nette, un'estetica che spesso non è funzionale alla storia. Ci sono argomenti molto interessanti ma c’è un concetto di scrittura troppo elegante, non c’è la disperazione. E questa mancanza la soffro come spettatore indipendentemente dal fatto che il cinema è il mio mestiere.

In che modo si consola, allora?
Ho visto bellissime cose che arrivano dai paesi dell’Est, lì sento la "polvere", la "puzza", quella disperazione di cui parlavo. Film dall’Ucraina, come The Tribe che mi ha molto coinvolto, ma anche dal Cile, dall’Ungheria. 

Serve una riflessione di metodo, secondo lei?
Sì, ma io la faccio questa riflessione, altri no, oppure mentono a loro stessi. Il pubblico è distratto, non entra più nelle storie e se lo fa è solo perché trova qualcosa che gli appartiene o si identifica con la battuta della commedia perché può riproporla al bar. E vogliamo parlare di queste sedicenti commedie che scimmiottano quelle francesi e americane? La commedia vera era cinema di denuncia, era quella di Wilder, Risi, Monicelli. 

"Oggi nelle storie sento la distanza, la freddezza. Vedo immagini, silenzi, attori sconfortati che cercano di oltrepassare affannosamente questa barriera del falso, e il punto è che dobbiamo essere bugiardi ma dobbiamo anche saperlo fare, come diceva Fellini."

Come se ne esce?
Non voglio essere polemico ma, ribadisco, esiste un problema serio ed è quello che riguarda la "democratizzazione dell’immagine", e facendo spesso parte di una giuria me ne accorgo ancora di più. Oggi tutti possono fare un film, soprattutto grazie alla tecnologia che avanza, era meglio quando il mezzo cinematografico era più complicato da usare e avvicinarvisi non era cosa per tutti, a quel tempo c’era più preparazione. Se vedo un soggetto che mi interessa, mi affascina, lo devo sentire, e per sentirlo devo documentarmi, oggi invece nelle storie sento la distanza, la freddezza. Vedo immagini, silenzi, attori sconfortati che cercano di oltrepassare affannosamente questa barriera del falso, e il punto è che dobbiamo essere bugiardi ma dobbiamo anche saperlo fare, come diceva Fellini. E manca il rapporto con le storie che si raccontano. Faccio un esempio opposto, visto che l'ho vissuto in prima persona.

Prego.
È stato il figlio era una storia che mi apparteneva perché sono siciliano, anche se non l’ho inventata io, mi ci sono cimentato dopo ben 8 mesi, eppure avevo già il budget, prima però mi sono informato, ho studiato il processo vero del racconto prima di metterlo in atto.

Malgrado tutto ci sarà un film che l’ha convinta quest’anno...
Fiore, anche se sono di parte visto che ne ho curato la fotografia, e Indivisibili, che però ha qualche problema di fondo. È un film con una bella idea, una storia magica, ma ci ho visto anche esagerazione e compiacimento. 

"Provocatoriamente sostengo che il cinema italiano, come si diceva di quello americano molti anni fa, è fatto dai 15enni, è un cinema piccolo che non arriva da nessuna parte, io in questi film non mi ci ritrovo pur riconoscendone la dignità."

Del resto l'autocompiacimento e l’eccessiva autoreferenzialità sono critiche che piovono puntualmente sul cinema italiano.
I nostri film ormai sono, a volte anche dichiaratamente, delle rivisitazioni o dei remake. E il pericolo è che in questo modo il cinema somigli sempre di più e sempre più spesso a qualcosa di già fatto, io ad esempio il cinema non lo copio, lo evoco, mi sono formato con i film americani, con Welles, ma anche con Hitchcock, Dreyer, Truffaut e non lo rinnego. Bisogna cercare di armonizzare storie ed estetica, non si può parlare solo per immagini, ci si annoia. La verità è che il cinema italiano vive un momento difficile.

Cosa salva?
Bellocchio, che è un grande maestro, l’ultimo che è rimasto. Ma intendiamoci, abbiamo registi bravissimi, come Sorrentino o Garrone, eppure avverto questa fatica nel mostrare. C’è Rosi che è un documentarista straordinario che riesce a guardare una realtà senza aggiungere nulla, fa cinema, grande cinema. Stimo Virzì, perché la commedia italiana contemporanea la sa fare, ma parla di un mondo che a me non interessa. D’accordo, diceva Welles che non si guardano i film dei colleghi, si guardano i propri, ed è vero, e non bisogna nemmeno criticarli. Ognuno ha il suo mondo, e sarà il pubblico a giudicare. Provocatoriamente, tuttavia, sostengo che il cinema italiano, come si diceva di quello americano molti anni fa, è fatto dai 15enni, è un cinema piccolo che non arriva da nessuna parte, io in questi film non mi ci ritrovo pur riconoscendone la dignità.

 "Io non sono cattolico ma amo le chiese, e per me il cinema è una cappella, entri e sei prigioniero per due ore."

Suona come una sconfitta.
Beh, io mi sento abbastanza sconfitto. C’è una generazione di spettatori che sta avanzando contaminata da tv, telefilm, serie. Non si va più al cinema e il cinema non incassa, non è solo questione di pirateria ma di dipendenza. Il fatto che io spettatore posso fare del cinema anche con un telefonino, posso giudicarlo, perché c’è Facebook non dimentichiamocelo, fa di me il padrone in assoluto. Una volta c’era un altro tipo di concetto di cinema, vede, io non sono cattolico ma amo le chiese, e per me il cinema è una cappella, entri e sei prigioniero per due ore. Kubrick voleva addirittura le sale cinematografiche completamente nere, con lo schermo bianco, così, monolitico, e lo spettatore viaggiava, non c’era bisogno di 3D. La magia era quella, la bugia.

E lei tiene il gioco a questa bugia anche come direttore della fotografia.
La luce per gli altri, come ripeto spesso. Potrei inanellare un film dietro l’altro ma scelgo gli autori con cui voglio lavorare, così cresco di più. Il prossimo progetto probabilmente sarà il film di Ligabue. In Italia abbiamo tecnici bravissimi, direttori della fotografia eccellenti, perché lavoriamo con poco e molto rapidamente. Parlo sempre bene dei miei colleghi anche se gli altri non lo fanno con me [ride]. E poi faccio molti cortometraggi, sempre come direttore della fotografia. Mi definisco un artigiano del cinema, e mi piace sperimentare cose nuove. Il cinema è sempre una cosa che si impara mentre la si fa. Non c’è mai un momento in cui si dice “so fare il cinema”, non esiste. Io facevo il fotografo ai matrimoni, non ho mai frequentato una scuola di cinema, oggi faccio il docente e ai ragazzi dico: non è la scuola che vi dà la formazione, dovete vedere film dalla mattina alla sera, quelli vecchi soprattutto, per costruire il vostro immaginario. Perché è necessario assorbire un cinema che ha immaginato, come quello di Tarkovskij. Io per esempio farei un cinema con il narratore, si apre il sipario e c’è uno che racconta, così, senza le immagini, nel mio spettacolo teatrale, Wonderland, l’ho anche fatto. Oggi quella sarebbe una grande provocazione ma anche un grande stimolo. 

A quando il prossimo film da regista?
Sto preparando da tempo un film sulla storia di Tanio Boccia, un regista degli anni '70 che faceva film bruttissimi e che però vendeva in America. Lo definivano l’Ed Wood italiano ed era abbastanza conosciuto nell’ambiente dei cinéfil. Vedremo se partire con le riprese già alla fine dell’estate. Un altro film che ho in cantiere è una storia d’amore, un road movie tratto da un libro, Stalin + Bianca di Iacopo Barison. E per la prima volta con questo film vorrei raccontarmi.

Ci spieghi.
È curioso ma non ho una cosiddetta opera prima, il mio esordio è stato con Lo zio di Brooklyn in coppia con Franco Maresco, che parlava della morte del cinema. Ora ho trovato una storia che può rappresentarmi come autore.

Tornerà mai a girare con Maresco?
Non credo, abbiamo vissuto un bellissimo periodo, irripetibile, che ho voluto conservare, come penso anche lui. Se pure tornassimo a fare un film insieme non potrebbe più essere la stessa cosa.