Il funerale di Giulia Cecchettin ha segnato un’altra stazione della lunga Via Crucis di Giulia e della sua famiglia. Non è la stazione finale - il loro dolore non finirà mai. È stata una stazione importante per il nostro Paese: la famiglia Cecchettin ci ha reso partecipe della sua Via Crucis, sempre trovando le parole giuste per esprimere dolore, rabbia, e la speranza che tutto questo possa servire a qualcosa. Restano le tante Vie Crucis che centinaia di donne e ragazze percorrono da sole, accompagnate da chi si occupa quotidianamente della violenza contro le donne, e la speranza che il faro acceso su questa piaga e sul loro lavoro non si spenga subito.
Se sarà davvero un punto di partenza per un vero cambiamento, come ha auspicato il padre Gino nella bella lettera con la quale ha salutato la figlia, questo dipenderà da tutto quello che faremo noi dopo aver detto detto addio a quella ragazza di 22 anni che suo malgrado è diventata protagonista di una cronaca di una morte annunciata.
Ognuno deve assumersi la propria responsabilità, ha detto Gino Cecchettin, chiamando in causa la scuola, le famiglie, i media, gli uomini, la politica, le forze dell’ordine. Sono processi lunghi, lenti, che richiedono impegno e tempo - ma ci sono anche cose che possiamo fare subito, nei comportamenti e negli strumenti che abbiamo a disposizione.
Un primo passo, ora, sarebbe quello di smettere di parlare di chi è accusato di averla ammazzata, di raccontare i suoi interrogatori, la sua vita in carcere. Basta coi titoloni, per favore. Che l’inchiesta vada avanti, che la procura raccolga tutte le prove e le testimonianze che serviranno per arrivare al processo - processo che deve avvenire davanti alla legge, non banalizzato nella platea dei media e dei social. Nell’aula di un tribunale l’accusato dovrà rispondere delle sua azioni, e lì una società davvero convinta di dover cambiare può analizzare cosa è successo, in quelle ore e in quella settimana - se è stato fatto tutto quello che si poteva fare in quei momenti e chiedendo così a ognuno di assumersi la propria responsabilità.
“Le forze dell’ordine devono essere dotate delle risorse necessarie per combattere attivamente questa piaga e degli strumenti per riconoscere il pericolo.” Gino Cecchettin
Lo sapevamo tutte, fin dalle prime notizie di quella domenica 12 novembre, che a Giulia era successo qualcosa di terribile. Ma ci sono voluti sei lunghi giorni perché Filippo Turetta venisse formalmente indagato: il mandato di cattura scatta solo venerdì 17 novembre, sei giorni dopo la denuncia di scomparsa di Giulia Cecchettin (e il giorno prima del ritrovamento del suo cadavere e dell’arresto di Turetta in Germania). Solo quel venerdì il pm dispone una perquisizione a casa sua, il sequestro del suo computer, il mandato di arresto europeo. Perché aspettare così tanto? Perché continuare a considerare “persone scomparse” sia Giulia che Turetta? Perché si cercano due ragazzi “in fuga” invece di una vittima e del suo rapitore?
Si è dovuto attendere l’evidenza inconfutabile prodotta dal video di Turetta che rincorre e picchia Giulia Cecchettin, come se soltanto con quella prova schiacciante si potesse procedere. C’è, in tutto questo, un terribile senso di déjá-vu di forze dell’ordine e magistratura che sottovalutano gli allarmi lanciati, come le denunce delle donne che spesso non sono seguite da passi concreti.
Eppure i tasselli c’erano già tutti. Alle 23:18 di sabato 11 novembre, da una strada che dista appena 150m da casa Cecchettin, un testimone chiama il 112:ha sentito una donna chiedere ripetutamente aiuto, urlando“Così mi fai male.,” Lo stesso testimone racconterà il giorno dopo al padre di Giulia che “aveva visto un individuo calciare violentemente una sagoma che si trovava a terra, notando poi allontanarsi una Fiat Grande Punto di colore scuro, della quale non era riuscito a scorgere il numero di targa” (dall’ordine di custodia cautelare contro Filippo Turetta).
Quella stessa domenica Gino Cecchettin era già stato dai Carabinieri per sporgere denuncia di scomparsa, descrivendo i comportamenti possessivi di Turetta e spiegando di essere seriamente preoccupato per l’incolumità della figlia. I Carabinieri non collegano la denuncia al pestaggio di una donna a 150m da casa Cecchettin la sera prima. Così la scomparsa di una ragazza di 22 anni, uscita con un ragazzo che aveva dato segnali che qualsiasi persona familiare con la violenza di genere avrebbe riconosciuto come pericolosi, viene catalogata come “allontanamento volontario.”
Quando il padre sporge denuncia, alle 13:30 di domenica, Giulia era già morta, ma questo lo sappiamo adesso. E sabato sera alle 23:18, quando parte la chiamata al 112, Giulia era ancora viva e lottava contro il suo assassino - verrà finita mezz’ora più tardi, poco più in là, nella zona industriale di Vigonovo.
Cosa è successo dopo la chiamata? Cosa hanno fatto i Carabinieri? Il racconto sembra abbastanza dettagliato da poter inviare un allarme a pattuglie, da far uscire una macchina, cercare una Fiat Punto nel non immenso paese di Vigonovo. I Carabinieri raccontano poi ai giornalisti di non aver avuto uomini e mezzi per andare a indagare. Perché le grida di aiuto di una donna che viene colpita violentemente non fanno scattare una priorità, coinvolgendo anche la Polizia?
Agire prima forse non avrebbe salvato la vita della ragazza (anche se questo lo sappiamo ora, non in quei sei giorni), ma avrebbe dato il segnale di una società che riconosce i segnali della violenza di genere e ha i mezzi (anche se insufficienti e fallibili) per affrontarli.
Il caso di Giulia ha invece messo a nudo, praticamente in diretta social e TV, le mancanze di un sistema che, nonostante tutte le leggi e i Codici Rossi, sembra essere impreparato quando si tratta di fare passi concreti.
È fondamentale che su questo venga fatta chiarezza. Le telefonate al 112 sono tutte registrate. Al processo potremo sentire l’audio, chiedere ai Carabinieri in base a quali criteri hanno deciso di non inviare una pattuglia. Capire perché il giorno dopo la denuncia del padre - chiarissima in tutta la sua urgenza - viene catalogata come “allontanamento volontario” e non collegata alle grida della sera prima. Stabilire se si poteva agire diversamente non serve a incolpare un sistema o alcuni individui, ma a delineare con chiarezza cosa fare perché errore così gravi non si ripetano.
Anche questi sono i passi che portano al cambiamento.
Negli Stati Uniti esiste un sistema di allerta che nacque da una tragedia. Nel 1996, una bambina di nove anni, Amber Hagerman, venne rapita ad Arlington, in Texas, mentre girava con la sua bicicletta, e assassinata brutalmente. La polizia e le TV locali si misero insieme al lavoro per creare un sistema di allerta immediata per rintracciare bambini spariti,. Nacque così un sistema dall’acronimo AMBER (America’s Missing: Broadcast Emergency Response). Quasi tutti gli stati americani hanno or un sistema simile e gli Amber alert, oltre che dalle TV, vengono inviati via SMS a milioni di cittadini negli attimi successivi alla scomparsa di un minore. Non ho più il mio cellulare americano, altrimenti potrei elencare qui i dettagli dei due o tre “Amber alerts” che ho ricevuto durante i miei 20 anni negli Stati Uniti. Indicavano il tipo di auto, la targa, la zona dove questo veicolo veniva ricercato. Erano brevi, fattuali, e dopo averli visti davi automaticamente un’occhiata alle auto che ti passavano vicino…
Il sistema ha sconfitto la piaga dei sequestri di minori? No. Ma coinvolge una comunità, chiama alle nostre responsabilità e, secondo dati ufficiali, da quando è stato creato ha portato in salvo oltre 1250 bambini, mentre alcuni sono stati liberati dai loro rapitori dopo che avevano sentito un Amber alert che li riguardava. Una tragedia è servita a creare un sistema per fare qualcosa di concreto.
La mamma di Celine Frei Matzohl, la ragazza di 21 anni assassinata a Silandro il 13 agosto da un uomo che aveva denunciato, nella straziante lettera letta al suo funerale ha detto di aver fatto di tutto ma di non essere riuscita a proteggerla. Ma siamo tutti noi che non siamo stati in grado di proteggerla. Gino ed Elena Cecchettin hanno espresso eloquentemente in queste settimane tutto il nostro dolore e la nostra rabbia; spero riusciranno a trovare la forza per mantenere vivo il loro impegno e che, con la semplice dignità delle loro parole e del ricordo di Giulia, continueranno a inchiodarci alle nostre responsabilità, facendo insieme passi concreti di cambiamento.