La ’ndrangheta a Bolzano
“La ’ndrangheta a Bolzano c’è”. Francesco Messina, capo della direzione centrale anticrimine della polizia di Stato, è chiaro di fronte alla portata dell’indagine “Freeland”, subito definita “la prima operazione antimafia in Trentino Alto Adige”. Venti gli arresti, di cui nove in provincia di Bolzano, tre fra Trento, Treviso, Padova e otto in Calabria, effettuati dalle squadre mobili di Bolzano e Trento e dai colleghi del resto d’Italia, a testimoniare il legame secondo gli inquirenti tra il “locale” distaccato di ‘ndrangheta e la casa madre, una delle più potenti cosche calabresi. Si tratta del clan Italiano-Papalia di Delianuova, sulla costa tirrenica, ma non mancherebbero relazioni con i clan di Platì, come i Barbaro e i Pelle, e di Natile. Nomi che fanno tremare.
La prima operazione antimafia in Regione
Tra gli arrestati, in base all’ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip Marco La Ganga, su richiesta del sostituto procuratore Davide Ognibene che coordina l’indagine, figurano anche i due presunti capi dell’affiliazione locale, che per gli investigatori è il risultato di una presenza, all’inizio non organizzata, risalente già agli anni Ottanta e poi strutturatasi. Mario Sergi, domiciliato a Bolzano, considerato il gestore di fatto del bar bolzanino Coffee break (intestato alla compagna), che sarebbe servito anche per delle riunioni tra affiliati, e il titolare della ditta edile Sirio costruzioni (in fallimento), ritenute attività di comodo e copertura. Poi Francesco Perre, colui che negli anni Novanta avrebbe costituito la base della cosca a Bolzano e poi si è allontanato dall’Alto Adige passando il testimone a Sergi. Lunga la lista di reati contestati, dall’associazione a delinquere di stampo mafioso e finalizzata allo spaccio di droga, fino al sequestro di persona, alle estorsioni e alla detenzione di armi. Naturalmente, vista la fase di indagine, si tratta di addebiti su cui gli indagati avranno modo di rispondere e difendersi nelle sedi opportune.
L’indagine è partita un anno e mezzo fa dalle prime verifiche sulle dichiarazioni rese in passato da un collaboratore di giustizia, Romeo Nunziatino, vicino alla famiglia Papalia-Barbaro di Platì. In seguito, sotto la lente sono finiti i presunti affiliati alle ‘ndrine, persone che da tempo si erano trasferite in regione, o addirittura nate a Bolzano. Con intercettazioni telefoniche e ambientali, appostamenti e pedinamenti, sui presunti affiliati da tempo radicati in provincia gli agenti delle mobili di Bolzano e Trento coordinati dai servizi centrali della polizia hanno raccolto prove sulle diverse attività di natura criminale avviate almeno da diversi anni, nell’insospettabile (fino a ieri) Alto Adige.
Il quadro che via via è emerso ha allarmato le forze dell’ordine fino ai più alti livelli. Sfruttando la forza di intimidazione che è propria delle mafie e della ‘ndrangheta, il gruppo stando alle accuse aveva messo in piedi una serie di attività illecite, dal traffico di droga ai tentativi di infiltrare l’economia legale avvicinando gli imprenditori in difficoltà, o in cerca di scorciatoie per prestiti (verifiche in corso riguardano anche il sospetto di usura). Profili criminali “di grande spessore” si sono appropriati del territorio “in maniera silente”, come hanno evidenziato sia Messina che Fausto Lamparelli, capo del servizio centrale operativo della polizia, e il procuratore capo di Trento Sandro Raimondi.
“Non più infiltrazione ma esistenza strutturata”
“Non più infiltrazione ma esistenza strutturata, risalente fino agli anni Ottanta”, stando alle parole di Messina. Il “locale” di Bolzano - una delle tante ramificazioni territoriali di una mafia internazionale come la ‘ndrangheta, che purtroppo vanta presenze anche in Canada, Australia e tratta da pari a pari con i cartelli sudamericani per far arrivare la cocaina in Italia - avrebbe sfruttato la capacità intimidatoria propria della criminalità organizzata, anche con il possesso delle armi, per svolgere le attività criminali. Ad esempio il traffico di droga dalla Calabria, cocaina fino a 4-5 chili al mese sulla piazza bolzanina, ad un prezzo di acquisto di 29.000 euro al chilo ed elevata capacità di guadagno che secondo Raimondi sono all’altezza solo di una struttura come la ‘ndrangheta. Il gruppo avrebbe assoggettato la malavita locale dello spaccio e versato direttamente alla casa madre, nella cosiddetta “bacinella”.
Associazione a delinquere di stampo mafioso e finalizzata al traffico e smercio di droga (sulla piazza bolzanina, fino a 4-5 chili al mese di cocaina), poi estorsione, detenzione di armi, favoreggiamento i reati contestati
Ci sono poi diversi altri reati contestati, estorsioni, detenzione e porto di armi da fuoco, concorso esterno in associazione di tipo mafioso, favoreggiamento.
Gli inquirenti hanno citato alcuni episodi che darebbero un’idea della caratura criminale degli indagati, del metodo mafioso e della deferenza della malavita locale. Il gestore del bar sarebbe intervenuto di persona dopo il borseggio effettuato a danno di una sua cliente. Risultato, i responsabili del furto hanno riconsegnato tutto scusandosi.
Un ulteriore particolare testimonia secondo gli investigatori il profilo criminale degli arrestati. Durante l’indagine gli agenti hanno colto in una conversazione tra gli intercettati riferimenti al sequestro di Carlo Celodan, nel 1988, il più lungo nella storia d’Italia. I particolari specificati, hanno appurato gli inquirenti, potevano essere conosciuti solo a chi conosceva da vicino il sequestro.
“Ora evitiamo ciò che è successo in Piemonte e Lombardia”
L’azione di magistratura e forze dell’ordine non è naturalmente finita. Ci saranno sviluppi d’indagine e in regione rimarranno forze in più dai servizi centrali della polizia, che aiuteranno gli agenti delle mobili di Bolzano e Trento. “La presenza era in via di radicamento, ma lo sforzo è proprio quello di evitare ciò che è successo in altri territori del nord, in Lombardia o Piemonte, dove la ‘ndrangheta si è pienamente radicata” afferma Messina. Attenzione anche alla crisi economica provocata dal Covid, che può favorire riciclaggio e il ricorso delle imprese in difficoltà al denaro fornito dai boss. “Con la crisi può essere l’impresa che cerca la mafia, questo va assolutamente evitato”, così Raimondi.
Vi confesso che questa
Vi confesso che questa notizia mi ha sconvolto.
Resta il fatto politico che si parla sempre di ciò che si vede, di ciò che è evidente (come il parco Stazione che oggettivamente in questo periodo è un problema umano) ma si tace su quello che ci sta dietro ed è ben più grave (perché poi è facile dare la colpa allo straniero).
Ancora una volta penso che l'antidoto a entrambi i problemi sia la Comunità, che va oltre il pensiero politico o la lingua che si parla. La Comunità e solo essa può salvare questa civiltà.