Tempo di Chet

Con “Tempo di Chet” (ri)nasce un teatro nuovo? Con questo spettacolo che adotta linguaggi diversi (la parola e il suono, ma non solo) e rielabora drammaturgie anche distanti tra loro (il docu-teatro, il teatro di narrazione, a tratti persino quello epico) assistiamo a un piccolo ma significativo nuovo Rinascimento?
A giudicare dall’anteprima bolzanina di sere fa (in scena fino a domenica, poi vedi sotto tutte le date), il lavoro del direttore del Teatro stabile di Bolzano Walter Zambaldi, del “gran sacerdote” e ispiratore Paolo Fresu, dei due autori (uno è anche regista), degli attori e di tutti i professionisti della scenotecnica, risulta eccellente.
Eppure si sa che una anteprima o prova generale si colloca soprattutto a teatro e nella musica sullo spartiacque tra lavoro preparatorio e rappresentazioni vere e proprie. E si sa anche che il pubblico di queste occasioni è molto eterogeneo (che è un bene) e talvolta però lo è troppo (ed è un po’ spiazzante).
Ebbene, “Chet” interpretato da Paolo Fresu e da Alessandro Averone (un musicista-compositore e un attore che trasformano felicemente in oro zecchino tutto quanto toccano) ha entusiasmato, commosso e stregato fin dalla anteprima, alba di un lungo viaggio nei teatri italiani che ci auguriamo si arricchisca ancora.
Già, ma che cosa è “Chet…?” Una biografia? uno “spettacolo su…”? Una occasione per ritrovare, un po’ come ai tempi delle rappresentazioni di Brecht e Weill l’intreccio e l’aggrovigliamento tra musica e recitazione?
Anche qui, proviamo a rispondere: lo spettacolo è tutto questo. E se proprio dobbiamo eseguire un esercizio di critica (solo gli imbecilli si aspettano recensioni esclusivamente elogiativo-celebrative), allora possiamo sposare o almeno comprendere l’opinione di chi l’altra sera a Bolzano aveva ascoltato “troppa musica” e “troppe parole” in alcuni rari momenti forse, appunto, decisamente “affollati” nelle due ore (meno cinque minuti) della comunque bellissima messa in scena.
Il regista, un musicista del calibro e della passione di Paolo Fresu e un co-protagonista (con Fresu) come Alessandro Averone conoscono benissimo (come gli altri musicisti e gli altri attori) il valore, le suggestioni e il significato delle pause e dei silenzi. Se lo riterranno, li inietteranno nelle prossime repliche. Ma a piccolissime dosi.
Ma il fascino, lo straniamento e l’intensità di “Chet” – dedicato alla storia normale e insieme maledetta di un grandissimo talento del jazz, autore di musiche straordinarie – sono già tutti lì, su quel palcoscenico arredato, illuminato e attraversato da costumi grazie ad alcuni professionisti “fuori scena” dei quali anche sentiremo parlare.
La forza dello spettacolo, comunque ruota comme il faut intorno a Paolo Fresu, autore anche delle musiche originali eseguite dal vivo e raccolte in un cd che si trova solo nei teatri dove lo spettacolo sarà replicato.
Questa forza è condivisa da un bravissijo Averone, impegnato a recitare un po’ brechtianamente e un po’ epicamente. Gli altri attori rendono con efficacia i diversi personaggi che ognuno di loro interpreta. Più nelle scene di gruppo e un po’ meno quando si siedono a turno su una sorta di “wiki-poltrona” per ricoprire un ruolo a turno.
Battimano fervidi e insistenti alla anteprima, più che meritatissimi. E una insistente, piacevole sensazione: quella della necessità di assistere allo spettacolo almeno due volte. Per goderne pienamente.
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