Tempo di Heimat
Il 10 dicembre si è tenuto alla LUB di Bolzano un convegno intitolato “Heimat: ancora oggi? Sulla durata e l’attualità di un concetto”. Ne hanno discusso Aleida Assmann, Martin Bredenbeck, Gabriele Di Luca, Hans Heiss, Anuka Hossain, Claudia Plaikner, Klaus Vontavon, Elsbeth Wallnöfer. Pubblichiamo qui una parte dell'intervento di Gabriele Di Luca, intitolato “Und niemand weiß“ (E nessuno sa): il paradosso del (non) sentirsi a casa”.
Prima di avventurarmi nella spiegazione della mia proposta – che intanto annuncio così: vorrei riuscire a mostrare (auspicare?) la torsione che il concetto di Heimat esperisce staccandolo dalla dominanza spaziale, per insistere invece su una sua possibile dimensione temporale – non nego che anche per me l'evocazione di un legame tra Heimat e certi luoghi sia inevitabile. Io vengo da Livorno, una piccola città di mare, una città portuale situata lungo la costa toscana. Cosa penso quando ci penso? Quando dico (o mi dico) che vengo da lì, in che modo articolo un riferimento alla (mia) Heimat? Più che pensieri miei, ho in mente di condividere con voi le parole di una canzone (del gruppo livornese Virginiana Miller) che si intitola (forse non è un caso) “Altrove”. Vi leggo i primi versi: Sono stazioni tirreniche al sole / Dove passano i treni direttissimi altrove. / È un palmizio borghese / accanto alla vasca vuota dei pesci, / rossi negli occhi. / È un museo dell'estate, le gelaterie / sconsacrate / Sono i canarini gialli nella precisione delle / finestre / Sono le epoche brusche delle maree da sentire coi piedi / Sotto un cielo questo che vedi con gli occhi dei sandali blu. Ogni elemento del testo è per me significativo, anche in senso molto personale. Mi sembra sia possibile percorrerlo a ritroso, partendo cioè dalla fine. Gli “occhi dei sandali blu” sono il correlativo oggettivo dell'infanzia, un tipo di scarpa che adesso credo sia caduto in disuso (o meglio: se ne vedono ancora, hanno però una clientela diversa), ma al tempo (quando io ero un bambino) veniva davvero indossato comunemente, specialmente d'estate o comunque nei mesi più caldi. Cito da un sito che si chiama “Italian shoes”: «Non si sa con precisione chi li abbia inventati, né quando, ma soprattutto a partire dagli anni '60 diventarono un grande classico: i calzaturifici ne proponevano la loro versione e non c'era bambino che non li indossasse». Siamo prossimi al linguaggio della Heimat, mi pare, anche se non abbiamo a che fare con parole, ma con oggetti, o forse addirittura con oggetti che sono anche luoghi: nelle scarpe non dimorano forse i piedi? Gli occhi dei sandali però sono anche veri occhi, occhi che “vedono” il cielo. E il cielo, propriamente, diventa (sempre percorrendo il testo a ritroso) una campata luminosa sotto alla quale altri oggetti – di volta in volta intenzionati dallo sguardo – prendono ad animare una dialettica tra elementi che alternano fissità e mobilità, vuotezza e pienezza, assenza e presenza: ferme le finestre, probabilmente in movimento i canarini; le gelaterie (in genere luoghi affollati d'estate) qui sono sconsacrate, vale a dire musealizzate, perché l'estate è ormai lontana; ondeggia al vento il palmizio accanto a una vasca vuota dei “pesci rossi negli occhi” (che dunque non ci sono e richiamano gli occhi dei sandali, gli occhi cavi con i quali si guarda il cielo vuoto come una vasca). Tutta la scena è poi attraversata dai treni direttissimi altrove, un elemento che in qualche modo dovrebbe mettere a repentaglio questo idillio crepuscolare (atmosfera da “mare in inverno”), vera e propria esplosione cinetica che sconvolge il lento depositarsi d'impressioni legate al sentirsi “a casa”, ma ci ricorda anche che nessun luogo può resistere alla rapina del tempo, ospite brusco così come sono “brusche” le epoche delle maree che ci consumano i piedi.
Pensare la Heimat come tempo significa pensarla come una pausa nel divenire che siamo
Se ho parlato di un luogo (un luogo che conosco bene, visto che così tante volte sono passato per quelle “stazioni tirreniche al sole”) non l'ho fatto affidandomi alla mia memoria diretta, ho preferito farlo attraversando il testo di una canzone. Sono convinto che più di un vero e proprio sentimento (pura emozione accesa e bruciata nel foro interiore), ciò che corrisponde davvero alla Heimat non sia disgiungibile da una determinata narrazione (non è disgiungibile perché può esservi anche narrazione dell'inesprimibile...), e la narrazione non può fare a meno di servirsi del concetto di tempo per organizzare i suoi materiali. Per questo recupero adesso il senso dei “miei” luoghi leggendoli nelle parole di quel testo, e proprio da quel testo svolgo l'idea che il mio “sentirmi a casa” sia soprattutto reso possibile da una pausa (una sospensione, cercherò di spiegarlo poi meglio), una pausa del divenire al quale siamo sottoposti (con un gioco di parole filosofico: una pausa nel divenire che siamo).
Ohne Fremde gibt es keine Heimat
Abbiamo sfiorato coste, abbiamo sostato in riva al mare, ma abbiamo anche visto o ascoltato passare i treni, siamo scesi in diverse stazioni, vorrei quindi condensare ciò che sto cercando di dire con un'immagine, vale a dire quella del “porto sicuro” (un porto però nel quale non si può approdare senza desiderare subito di lasciarlo di nuovo). Se all'interno di una concezione spazializzata della Heimat potrebbe avere così senso ricercarne il profilo nell'idea di un riparo, di una enclave protetta nella quale allontanare da sé i pericoli di una vastità avvertita come minacciosa (e qui non sarebbe difficile allegare un catalogo di possibili vastità minacciose), nel caso della sua torsione temporale si tratta di toccare e abbandonare il “porto sicuro”, la sicurezza che tale concettualità ci ha appena promesso, in quanto – come sanno bene i marinai – la vera vita non è quella che si svolge una volta sbarcati, perdendosi nei dedali di una città-mercato, ma sta nel riprendere ancora il largo, nel far nuovamente dei remi ali al folle volo (Dante, Inf. XXVI). È allora qui che la prova dell'Heimat diventa compiutamente la prova dell'estraneo, come l'ha chiamata Friedrich Hölderlin, secondo il quale [cfr. Brod und Wein] lo spirito non è a casa presso l'origine, presso la fonte, ma ama la colonia, e il valoroso dimenticare, perché la patria, anziché proteggerlo, lo consuma: ihn zereht die Heimat. Estremizzando e riassumendo: possiamo considerare il concetto di Heimat come qualcosa di derivato, di narrato, mai di originario, e l'esperienza che ne contraddistingue il “sentimento” non si identifica con un luogo preciso, ma può essere colta in modo più interessante se, muovendo da un luogo, ci dirigiamo altrove, non necessariamente verso un altro luogo, quanto piuttosto verso il tempo di questa traslazione, per così dire convergendo e sostando nella traslazione, e a partire da questa traslazione sospesa (sospensione ovviamente provvisoria) afferriamo l'intero percorso come se fosse un punto fuori dal tempo (mi limito a segnalare una possibile linea di sviluppo ulteriore: pensare la Heimat come epoché) senza tuttavia abbandonare mai il suo fluire: il punto al contempo statico e mobile che ricuce ogni scissione e che unisce le dimensioni del proprio (das Eigene) e dell'estraneo (das Fremde) facendocene scoprire il legame inestricabile: Ohne Grenzen zu überschreiten, können wir uns also nicht selbst entdecken. Ohne Fremde gibt es keine Heimat.