Cruda piccola patria
Ci sarebbe subito già un buon motivo, non potendo citarli tutti, per consigliare a chiunque, qui in Sudtirolo, la visione del film “Piccola patria” di Alessandro Rossetto. Il titolo, infatti, è quel che generalmente usiamo per tradurre un termine tedesco forse intraducibile: “Heimat”. Termine decisivo per comprendere il sentimento di appartenenza al proprio luogo natio continuamente sottolineato, fino alla nausea, dalle nostre parti.
Mediante una traslazione di genere necessariamente approssimativa – mancando, in Italia, una specifica letteratura della “Heimat”, e dunque anche del suo contrario –, l’ipotetico amante della classificazione dei generi dovrebbe scomodare qui la giovane e polemica tradizione dell’“anti-Heimat”, riferendosi a stilemi di cruda contestazione.
“Piccola patria” è un pugno nello stomaco, una rappresentazione disincantata (ma tutt’altro che fredda) di una realtà colta in uno stato di disfacimento. E si tratta di un disfacimento tanto più lacerante, quanto più chi lo sta subendo tenta di aggrapparsi a un nucleo essenziale di valori ormai però completamente trasfigurati. “Te piase i schei?”, la domanda che una delle due protagoniste rivolge all’altra allude a quel che resta dell’etica del lavoro: i soldi, la loro torbida e continua ricerca, non importa come.
Le riprese aeree non si limitano ad esporre il paesaggio, ma lo mettono a nudo. Una sequenza di piccole fabbriche agonizzanti sotto i colpi della crisi economica, i segni di un arricchimento convulso che adesso, con altrettanta velocità, sta decrescendo in modo tutt’altro che felice. E tra una fabbrica e l’altra, a rammentare un passato ormai quasi definitivamente perduto, una vacca colta nell’attimo di defecare, una gallina alla quale viene tirato il collo. E poi ovviamente ci sono loro, le donne, gli uomini di questa terra, intrecciati in relazioni fatte perlopiù di sessualità mercenaria o incestuosa, e gli stranieri, i cinesi, soprattutto gli albanesi, tutti quelli che si sono sovrapposti allo “strato antropologico” originario sollecitandone fino all’estremo la capacità di assorbimento. Un’integrazione difficile, carica di conflittualità latente, come il grilletto di una pistola pronta a sparare.
Rossetto, che in questo lungometraggio è riuscito a fondere originalità narrativa e tecnica documentaria, ha realizzato così un’impresa che lo accosta, a complemento, a quella, altrettanto impressionante, compiuta da Gianfranco Rosi col suo “Sacro Gra”, vincitore l’anno scorso del Leone di Venezia: farci sentire dall’interno, come ha scritto Christian Raimo, “quel mondo, la provincia, la profonda provincia, che appare così incredibile e così lontano – che viene studiato come fosse un oggetto per antropologi sedotti dall’assurdità di ciò che ci vive accanto in saggi come Il rancore di Aldo Bonomi, o che invade il palcoscenico della cronaca quando una banda di secessionisti costruisce un carrarmato di lamiera e cartone per finire in prigione con l’accusa di associazione finalizzata al terrorismo, o che fa ridere e tremare quando vengono dichiarati coram populo i risultati plebiscitari del referendum sull’indipendenza – è invece quanto di più simile alla nostra condizione presente: paranoica, sconfitta, affamata di affetto, capace di improvvise fiammate di tenerezza e risentimento, infantilismo e cupio dissolvi”.
Un’ultima nota per dire che nel film c’è anche un pezzetto di Bolzano. Alcune scene sono infatti girate nel bunker collocato alla periferia della città. Inoltre, e questo davvero non è un dettaglio da poco, la bellissima fotografia è stata curata dal meranese Daniel Mazza, ex allievo della scuola Zelig. Scuola, fra l’altro, dove il regista Rossetto ha svolto un’apprezzata attività di docente.
“Piccola patria” è in programmazione al Capitol di Bolzano, fino a mercoledì 15 maggio. Non perdetelo.
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