Giovani in fuga: ieri come oggi?
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In un commento apparso l’11 febbraio sul quotidiano trentino «Il T» Fabio Gobbato ha esposto i dati della fuga dei giovani dall’Alto Adige – o meglio, il non-rientro di tre quarti di quelli che dopo il diploma o la laurea si sono trasferiti all’estero – e si interroga sulle cause, a partire dalle più note: il caro-vita e il caro-casa. Quello stesso giorno, peraltro, lo stesso quotidiano riportava i numeri in crescita degli affitti brevi per uso turistico nella provincia di Trento, non molto diversa in questo da quella di Bolzano. Ma Gobbato, dati alla mano, giunge a individuare una causa più profonda della diaspora giovanile, che accomuna l’Alto Adige al resto d’Italia: relazioni sgradevoli sul lavoro o, come si dice oggi, una certa “tossicità” dell’ambiente lavorativo, a fronte di scenari esteri evidentemente più rispettosi, in cui si è più riconosciuti e si hanno maggiori possibilità di avanzamento e carriera. E poi un’altra causa ancora, stavolta locale: l’annosa questione del plurilinguismo richiesto a chi vuole lavorare nel pubblico impiego. Gobbato non è ottimista: di questo passo, l’agiato Alto Adige è destinato «a rimanere una provincia per vecchi». Ma da quando è così? Ed è poi così certo che i rientranti sarebbero ben accolti?
Ogni esperienza individuale ha sempre un quantum di esemplarità statistica. Racconta lo scrittore T.L.: «Venticinque anni fa, dopo un quinquennio trascorso a Trento per gli studi universitari, mi avvalsi di un contributo provinciale per un “soggiorno studio e lavoro” in Germania, a Berlino. All’epoca la Ripartizione Cultura Italiana copriva i costi di un corso intensivo di quattro settimane in un istituto accreditato (nel mio caso il Goethe Institut) e il primo mese di alloggio, a patto che dopo il corso si sostenesse uno stage di almeno nove settimane nello stesso luogo. Era con me un conterraneo ambizioso, che alla fine di quei tre mesi rientrò in Alto Adige per dedicarsi alla politica. Io rimasi a Berlino quasi cinque mesi. L’autunno successivo iniziai un dottorato a Trento e, di lì a poco, rifiutai un posto a tempo determinato come impiegato amministrativo della Provincia Autonoma presso il Centro Trevi. Se avessi accettato, forse nel giro di qualche anno avrei potuto permettermi un affitto a Bolzano e, un decennio dopo, un mutuo per acquistarci una casa. Ma scelsi lo studio, la ricerca e l’Europa. Così nel 2005, mentre la mia parte addottorata e bohémien guardava a Berlino come un eldorado in cui trasferirsi al più presto e intanto da bazzicare il più possibile, l’altra constatava che, se anche l'avessi voluto, non avrei più potuto permettermi una casa in Alto Adige, né la mia terra d’origine mi offriva opportunità di lavoro in accordo con la mia formazione accademica e letteraria. Quindi per il momento mi accontentai di un posto da supplente in una scuola privata a Bolzano, ma da pendolare, perché nel frattempo mi ero trasferito in Trentino, a Rovereto, dove gli affitti erano più bassi».
In quello stesso anno uscì il romanzo d’esordio di T.L., la cui pubblicazione si avvalse di un contributo provinciale e nel quale il «conterraneo ambizioso» era trasfigurato in un personaggio immaginario. Due anni dopo quel conterraneo diventò segretario di un partito altoatesino di maggioranza, mentre a T.L. nacque un figlio e per ragioni familiari decise di restare a Rovereto, pur con frequenti escursioni in Germania. «Del resto ero un cane sciolto» prosegue lo scrittore, «anche per questo la frequentazione di quel partito non mi procurò fortune di sorta. Anzi, dopo essere stato usato come portatore d’acqua e chiamato a organizzare un paio di eventi culturali, a un certo punto fui messo ai margini e mi dissi che andava bene così. E però, chissà perché, non riuscivo a staccarmi del tutto dall’Alto Adige. Nel 2009, dopo essere rientrato dall’ennesimo soggiorno a Berlino legato stavolta a una borsa di scrittura, lavorai per qualche mese all’INPS in piazza Domenicani, poi nel 2010 iniziai il primo di due mandati come commissario d’esame al Servizio Esami di Bi- e Trilinguismo a Bolzano. Continuavo a fare il pendolare, perché nello stesso periodo avevo iniziato a lavorare nella scuola trentina. Sempre nel 2009, l’aver ottenuto un importante premio per la traduzione letteraria mi aveva procurato l’attenzione della scena letteraria locale di lingua tedesca. Fu l’inizio di un dialogo che dura tutt’ora: se ancora oggi opero occasionalmente in Alto Adige, pur avendo smesso da un pezzo di abitarci, è soprattutto grazie a interlocutori di madrelingua tedesca, che hanno riconosciuto il mio lavoro senza che glielo chiedessi e anche senza quelle entrature così importanti nell’ambiente italiano per ottenere attenzione e opportunità. Eppure devo gli inizi di questo percorso a un generoso sostegno da parte della Cultura italiana. Non è curioso?»
Nei secondi anni dieci, già quarantenne, lo scrittore T.L. ha cercato più volte di candidarsi qui o là per tornare stabilmente in Alto Adige, ma gli ambienti cui si è rivolto si sono rivelati «chiusi, in parte ipocriti, per lo più indifferenti a un certo portfolio». Gli restava naturalmente l’opzione di un trasferimento nella scuola altoatesina, ma è noto che, ieri come oggi, gli insegnanti che aspirano a lavorare in questa terra, come altre categorie del pubblico impiego, sono ostacolati dalla difficoltà di trovare un affitto accessibile e, più in generale, da un caro-vita che con uno stipendio standard si affronta a malapena. «Se poi uno è separato, padre e ha già un mutuo sul groppone, sta fresco. E pian piano se ne fa una ragione, e invecchia altrove».
Insomma, cos’è cambiato rispetto a dieci, venti, venticinque anni fa? La vita costa sempre di più, la casa pure, e plurilingui continuano (giustamente) a volerci. Ma allora è cambiato quel che rilevava Gobbato: gli ambienti lavorativi sono diventati più “tossici”, frustranti e indesiderabili. Siamo meno civili di una volta, forse meno umani, di certo meno europei. E così anche in Alto Adige si continua a tornarci poco.
Die Auswirkungen einer…
Die Auswirkungen einer fehlgeleitenen Politik.