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La "follia" si guarisce narrandola

La Collana 180 di Alphabeta, una nuova legge per rilanciare la Riforma Basaglia e due romanzi hanno posto Bolzano al centro del dibattito sulla salute mentale.
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Foto: Foto gadilu

Per parlare dei disturbi mentali si possono usare molte definizioni e molti approcci. Tutte le differenze si diramano comunque dalla linea di frattura netta e immancabile di una dicotomia originaria, la quale – da un lato – suggerisce di privare il soggetto sofferente della sua stessa soggettività (il soggetto in questo caso arriverà a coincidere con i suoi disturbi, e questi verranno trattati come se in pratica lui neppure esistesse), oppure – dall'altro – ci fa scorgere proprio nella profondità della persona, nella complessa costruzione di qualcuno che non può mai essere ridotto a un semplice qualcosa, la radice di un malessere non separabile dall'intera storia di quel particolare individuo e da tutte le relazioni sociali che lo costituiscono.

La narrazione come terapia

Quelle che precedono sono però ancora astrazioni. Al fine di comprendere più da vicino il piano della “pratica psichiatrica” ci possiamo affidare all'insegnamento di Peppe Dell'Acqua, un medico che ha avuto la sorte di cominciare già nel 1971, a Parma, la sua carriera a stretto contatto con il padre della legge 180 – generalmente intesa come quella che ha chiuso i manicomi –, per diventare direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Trieste dopo la morte di Franco Basaglia (avvenuta nel 1980, appena due anni dopo l'approvazione della legge). Dell'Acqua si trovava in provincia di Bolzano nella settimana espressamente dedicata al tema della salute mentale – è comparso (“manco fossi la Madonna”, ci scherza su) a Gries (martedì 10 settembre), a Salorno (mercoledì) e poi di nuovo al Centro Trevi di Bolzano (giovedì) – e ha parlato della Collana 180 delle Edizioni Alphabeta Verlag presentando contestualmente due autori – Alberto Fragomeni e Carlo Miccio – che hanno affrontato in chiave narrativa alcuni aspetti dei disturbi mentali. Il riferimento narrativo deve essere sottolineato con forza, perché non si limita ad illustrare ciò che la condizione patologica nasconderebbe per così dire al di qua o al di là delle parole, ma rientra a tutti gli effetti nel quadro della elaborazione terapeutica del dolore, esemplificando al meglio il secondo versante dell'approccio psichiatrico (di ascendenza basagliana, per l'appunto) schizzato all'inizio.

 

L'indemoniato di Gerasa

Dato che per un lungo periodo chi veniva identificato come “folle” era assomigliato all'essere posseduto dal demonio, Dell'Acqua ha ricordato un passo del vangelo di Marco (5, 1-14) la cui ermeneutica può servire anche per descrivere la pratica psichiatrica umanizzante che sta alla base della legge 180. A Gerasa un “uomo posseduto da uno spirito immondo” si para davanti a Gesù e gli intima di andarsene (“Che hai tu in comune con me, Gesù, Giglio del Dio altissimo? Ti scongiuro, in nome di Dio, non tormentarmi!”). L'indemoniato vive solo, ha “la sua dimora nei sepolcri e nessuno riusciva a tenerlo legato neanche con catene”. Una condizione di estremo isolamento, in tutto simile a quella dei reclusi nei manicomi. Gesù la spezza semplicemente chiedendogli come si chiama, puntando quindi alla sua soggettività: “Mi chiamo Legione – risponde allora l'uomo –, perché siamo in molti”. Gesù compie allora un esorcismo, facendo fuggire gli spiriti maligni dal corpo dell'uomo per riversarli in duemila maiali, i quali finiscono col gettarsi da un burrone nel mare. “La perdita dei maiali è un notevole danno economico, rappresenta un costo elevato – ha chiosato sornione Dell'Acqua –, e questo ci insegna che anche il rivolgersi da uomo a uomo a un indemoniato o a un folle è un'operazione che ha dei costi, ma sono costi necessari a far tornare l'indemoniato sano di mente”.

Ridare slancio alla legge Basaglia

A settembre – ha spiegato ancora Dell'Acqua – è stata presentata un'iniziativa legislativa di modifica o revisione della legge 180 che non si prefigge ovviamente un cambiamento della sua impostazione generale, ma anzi vorrebbe che finalmente venissero individuati tutti quei dispositivi necessari alla sua piena applicazione, visto che allo stato attuale ciò avviene ancora in modo frammentario, con troppe differenze territoriali e soprattutto lasciando il varco a pratiche di cura che tornano a contraddire lo spirito della legge Basaglia mediante il ricorso alla contenzione, all'abuso di psicofarmaci e [si veda la recente polemica della quale anche salto.bz ha dato conto, ndr] all'utilizzo della terapia elettroconvulsivante”. Per ridare un nuovo slancio alla legge 180 occorre dunque continuare a decostruire il paradigma oggettivante che vede nella malattia psichica un campo d'azione ristretto, isolabile dal contesto in cui essa insorge, e privilegiare l'intervento sulla dimensione relazionale che pone l'individuo in condizione di non subire passivamente il trattamento psichiatrico. Esattamente qui si innesta l'evoluzione della pratica narrativa della quale sono un esempio i due autori che hanno accompagnato Dell'Acqua nella sua esposizione, e un breve cenno alle loro opere permette di scorgerne tutta la produttività.

 

Dettagli tutt'altro che inutili

Il libro “Dettagli inutili” di Alberto Fragomeni è un memoir antisentimentale ed ironico del percorso di cura compiuto dal giovane autore. Basta spiegare il titolo per entrare già nel cuore dell'operazione. “Durante i colloqui fatti con alcuni medici – ha illustrato Fragomeni – capitava che io mi mettessi a raccontare della mia vita, delle cose che mi piacciono o di quelle che mi fanno sentire più a disagio. Mentre parlavo, però, questi medici si distraevano, tiravano fuori il cellulare o sembravano assorti in considerazioni che nulla avevano a che fare con quello che io stavo dicendo. Era insomma come se io stessi rivelando dei dettagli completamente inutili a definire la mia condizione di malato, e le loro scelte terapeutiche finivano poi per rivolgersi più alla patologia che alla mia persona”. Quello che colpisce, nella riflessione di Fragomeni, è la profondissima comprensione della propria condizione alla luce di un esame rigoroso della dicotomia metodologica tra pratica psichiatrica umanizzante e oggettivante. Affrontando il tema dell'antipsichiatria egli scrive: “le fondamenta dell'antipsichiatria poggiano su qualcosa di profondamente vero e su qualcosa di decisamente falso, la verità sta nella massima considerazione in cui è tenuta la soggettività, per la quale nessuno può permettersi di dirti che sei matto, la bugia sta invece nell'idea che qualunque parere medico, anche quello formulato con il massimo rigore scientifico, sarebbe del tutto opinabile, e quindi, in ultima analisi, nella totale negazione dell'oggettività”. La malattia psichica non deve essere vista come qualcosa di romantico, la liberazione dai ceppi istituzionali che l'hanno posta in essere non significa illudersi che essa si volatilizzi. Ma è solo grazie alla sua narrazione, al poterne parlare contando su un autentico ascolto, che si spalanca lo spazio necessario a ricomporre l'identità frantumata oltre il recinto di saperi sedimentatisi in una “chiacchiera” (talvolta anch'essa una vera e propria polifonia di demoni) priva di attinenza con la realtà.

 

Tornare in gioco

La trappola del fuorigioco” di Carlo Miccio si sviluppa oltre il resoconto di una vicenda autobiografica, assumendo piuttosto l'aspetto di un vero e proprio romanzo di formazione costruito su tre ambiti d'indagine – o ingredienti – fusi in modo molto originale. Innanzitutto la passione per il calcio, e in particolare per la leggendaria nazionale olandese di Johan Cruyff, serve a far emergere con tinte vivide lo sfondo degli anni Settanta (periodo nel quale è ambientata gran parte della storia) e una riflessione sul “collettivismo” che abbraccia non solo le gesta degli “orange”, bensì anche la temperie politica allora dominata dalla fortissima contrapposizione tra gli ultimi partiti di massa (il Partito Comunista Italiano e la Democrazia Cristiana) e per l'appunto la scena dei movimenti di critica sociale dai quali è scaturita anche l'esperienza di Franco Basaglia; quindi il ritratto del padre del protagonista, affetto da una grave forma di disagio mentale – caratterizzata fra l'altro da una patologica avversione per il Comunismo –, consente un esame del passaggio storico tra il periodo pre-basagliano e quello successivo alla luce di ciò che ha significato per le famiglie e i congiunti delle persone sofferenti; infine il fenomeno della tossicodipendenza (in maniera illuminante Miccio suggerisce persino che tra follia e tossicodipendenza via sia una medesima attitudine disfunzionale, che può essere chiarita ed eventualmente risolta proprio dall'esame della Lebenswelt di chi la patisce), con la quale il protagonista si confronta – e contro la quale combatte – al fine di ricucire la trama della propria vita in più punti spezzata, e tornare così “in gioco”.

Come ha ribadito in conclusione Peppe Dell'Acqua - regalando uno sguardo d'insieme ai due romanzi e riassumendo il senso dell'intero progetto che sostiene la Collana 180 -, “la capacità di raccontare, di dare vita a narrazioni strutturate, consente la fuoriuscita dei soggetti dalle proprie limitazioni, permette loro di scavare il linguaggio psichiatrico in profondità, riduce lo stigma che tiene prigioniere le persone e riesce a creare quasi un nuovo tipo di letteratura, della quale forse abbiamo tutti bisogno, e non certo solo in sede terapeutica”.