Molto giusto
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Si tratta di un fenomeno interessante, spesso poco approfondito oppure strumentalizzato: il cosiddetto paradosso nordico, ovvero il fatto che nonostante le fortissime politiche di uguaglianza tra uomo e donna in atto in Nord Europa, continui a persistere il fenomeno della violenza di genere contro le donne, in particolare della violenza domestica. Il paradosso nordico viene spesso citato da chi ignora l’aspetto strutturale della violenza di genere, da chi sostiene che “la violenza non c’entra niente con la posizione della donna nella società”. Chi, invece, assume l’interdipendenza tra violenza e disparità di potere tra uomo e donna in una società patriarcale (come espressamente ripresa dalla Convenzione di Istanbul), considera con attenzione ciò che nelle ricerche europee sulla violenza è stato definito il “paradosso nordico” e cerca di capirlo bene per trarne una lezione.
Ne ho parlato a lungo con Marcella Pirrone, avvocata delle reti DIRE e WAVE, ovvero la rete nazionale la prima e quella internazionale la seconda, dei Centri Antiviolenza e delle Case rifugio. Riassumo qui alcune delle tante considerazioni fatte, sperando di chiarire come si sia arrivatə al paradosso nordico e di fornire uno strumento di lettura utile a chi legge.
Siamo partite dall’evoluzione storica dei femminismi in Europa: in Italia, Francia e Spagna il femminismo della differenza puntava a trasformare e scardinare il sistema patriarcale rifiutando di, cito Marcella Pirrone, “chiedere alle istituzioni, espressione massima del patriarcato, di essere uguali all’ uomo, inteso in senso simbolico e politico, e chiedere quindi il permesso di entrarci”.
Nel Nord d’Europa, dove in generale la fiducia nelle istituzioni è ben più radicata (“lo Stato siamo noi”), anche per una storica presenza “sociale” più forte dello Stato, l’approccio è stato più istituzionale e caratterizzato da una richiesta di uguaglianza e di adeguamento agli standard del modello sociale dominante maschile. Marcella Pirrone lo spiega cosi: “Credo nello Stato, lo Stato sono io – ci entro per renderlo più giusto nell’illusione che la semplice presenza della “donna biologica” abbia un effetto di cambiamento”. Questo ha permesso sì di migliorare alcuni parametri formali, come la presenza di donne in ruoli di rilievo, l’obbligatorietà del congedo parentale e molto altro, ma non ha avviato il cambiamento culturale alla radice delle discriminazioni e della violenza di genere contro le donne, indispensabile per il cambiamento sociale più radicale: fra le mura domestiche i ruoli stereotipati sono rimasti gli stessi, i privilegi maschili non sono stati abbandonati, così come sono rimasti invariati molti preconcetti e dinamiche tossiche. Anzi, si è aggiunta un’ulteriore colpevolizzazione della donna e quindi un ulteriore ostacolo per la fuoriuscita dalla violenza, perché “ora che formalmente avete la parità, potete fare tutto, se vi trovate in una situazione di violenza è tutta colpa vostra!”.
L’affidarsi alle istituzioni, in un’illusione di politica di parità di un sistema che non è espressione del simbolico e dei valori delle donne, soprattutto quando le loro istanze vanno a tangere i privilegi di chi vuole mantenere lo status quo, ha portato a una lettura diversa della violenza. Pian piano sono sparite le specificità del fenomeno della violenza maschile contro le donne annacquando linguaggio, spazi, politiche, risorse pubbliche. Si va verso una neutralizzazione della definizione di violenza di genere, non nominando più espressamente il genere maschile di chi agisce violenza e il genere femminile di chi la subisce, verso un depotenziamento e una frattura dei movimenti femministi.
Ed eccoci al paradosso nordico: parliamo, quindi, di una società egalitaria a livello formale e istituzionale che non ha però affrontato il cambiamento simbolico culturale e strutturale nella società e nel privato. È proprio l’interdipendenza fra questi aspetti che può fare la reale differenza nella lotta alla violenza di genere contro le donne. O come sostiene Marcella Pirrone: “Il concetto di uguaglianza è stato una trappola. Rispetto ai valori tradizionali di divisione dei ruoli culturali tra uomo e donna e rispetto agli stereotipi non c’è stato un cambiamento di pari passo tra pubblico e privato, è mancata l’evoluzione delle diverse parti della società ed è venuta a mancare la vena critica, la rivendicazione.”
Molto giusto
Può darsi che nei cosiddetti "paesi nordici" negli ultimi anni sia cambiata la composizione della popolazione, soprattutto maschile? Credo che decenni di femminismo militante in paesi come la Svezia abbiano cambiato radicalmente il pensiero degli uomini autoctoni (non sta a me giudicare se in meglio o in peggio). Quando leggo questo tipo di "Meinungsartikel", ho sempre l'impressione che le autrici non si rendano conto di rivolgersi soprattutto alla propria bolla ideologica. L'uomo "nordico" di oggi è stato piegato con successo e non rappresenta più un problema, anzi! Forse dovremmo (o dovreste) proiettare le nostre energie anti-patriarcali verso certi ceppi di popolazione che, loro sì, avrebbero bisogno di imparare a trattare le donne come si deve.