L'istituzionalizzazione della misoginia
Orinatoi di carne. Mussolini amava definire così le donne. La frase, attribuita a Giovanni Papini, ricorre spesso tra le parole dedicate al genere femminile e rappresenta la sintesi perfetta della visione fascista sulle rivendicazioni femministe che negli anni immediatamente precedenti al ventennio si imponevano con forza sulla scena europea. Si era da poco conclusa la prima guerra mondiale e in Occidente il movimento femminista si batteva per il suffragio universale, visto come diritto imprescindibile alla luce dell’enorme sforzo che il conflitto aveva richiesto anche alle donne, le quali per la prima volta, in massa, si erano trovate ad occupare posti di lavoro fino ad allora tipicamente maschili. Dal 1914 al 1918 le nazioni coinvolte avevano vissuto anni di distruzione e privazioni, al fronte e nella società civile, impegnata a sostenere la produzione bellica. Gli eventi avevano così portato le donne ad essere una parte finalmente riconosciuta dell’economia, spronata alla partecipazione attiva e capace di essere incisiva in alcune delle istanze lavorative. In maniera imprevista, quindi, la guerra aveva spinto le donne verso una maggiore consapevolezza del loro ruolo e, finito il conflitto, nei vari Stati si era imposto il tema del suffragio universale, forte anche delle lotte sindacali e delle rinnovate aperture dei partiti comunista e socialista, che ormai vantavano tra le fila illustri esponenti femminili. In questo complesso quadro internazionale anche l’Italia partecipava al dibattito e importanti personaggi di spicco della scena politica, come Anna Kuliscioff, sostenevano le rivendicazioni femministe, ormai capaci di arrivare a fasce più ampie di popolazione. A mettere la parola fine al fermento di quegli anni arriva, però, il fascismo che, in maniera e violenta e definitiva, istituzionalizza la misoginia della cultura patriarcale già presente in Italia.
Sebbene i liberali del primo novecento fossero comunque lontani dalla visione di un mondo paritario, difficilmente avrebbero usato i toni che durante il fascismo diventano usuali
È questo il tema del volume di Mirella Serri Mussolini ha fatto tanto per le donne!, che ripercorre le vicende del partito fascista e dei suoi gerarchi per ricostruire le tappe di un machismo che per la prima volta diventa istituzionale in tutte le sue espressioni, non risparmiando il luogo delle parole. Serri, infatti, insiste sulla formazione del linguaggio misogino che si ritrova sempre più spesso nelle parole delle alte cariche statali: sebbene i liberali del primo novecento fossero comunque lontani dalla visione di un mondo paritario, difficilmente avrebbero usato i toni, che durante il fascismo diventano usuali, per descrivere le donne e il loro ruolo. Le canzonette, le chiacchiere volgari, gli insulti sessisti vengono, per la prima volta, utilizzati nei discorsi ufficiali, nelle stanze dei palazzi e si infiltrano nel linguaggio di tutti i giorni, in una riduzione della figura femminile al servizio della volontà maschile che passa anche dalle riforme, a partire da quella di Giovanni Gentile. La scuola, infatti, diventa uno dei modi principali per rinchiudere le donne nella funzione di mogli e madri e Gentile non esita ad allontanare le donne dall’insegnamento e dai licei, concepiti come palestra per la sola classe dirigente maschile, creando contemporaneamente un istituto per sole ragazze, in cui vengono insegnate materie che preparano al matrimonio, senza alcun tipo di sbocco lavorativo. La scuola fallirà per carenza di iscrizioni quasi immediatamente, ma alle donne rimarrà la sola attività domestica, a causa di un ristretto elenco di professioni alle quali possono ambire, tutte ancillari e subordinate alla direzione maschile. Nel frattempo anche le donne fasciste che avevano partecipato attivamente alla causa vengono ridotte al silenzio, ricondotte a vestali (questo il termine da loro stesse usato) del movimento e poi definitivamente oscurate, nonostante l’importante contributo iniziale, anche economico, che alcune di loro, come Margherita Sarfatti, avevano apportato al nascente partito. Il libro si concentra soprattutto sull’avvento e sui primi anni del fascismo, con importanti excursus sulle leggi che si susseguono durante il ventennio, ma permette di comprendere quanto il linguaggio fascista abbia plasmato la mentalità italiana in un retaggio di cui, purtroppo, ancora non ci siamo liberati. Persino gli esponenti dell’assemblea costituente, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale, seppure sanciscano negli articoli della Costituzione l’uguaglianza tra i sessi, non esiteranno ad esprimere giudizi sessisti ed a limitare l’affermazione femminile, disconoscendo il fondamentale apporto delle donne alla Resistenza. È solo il 1947 quando Giovanni Leone, giurista e futuro Presidente della Repubblica, si esprime contro la partecipazione delle donne alla magistratura, con un divieto che verrà revocato solamente nel 1963, negli anni ‘50 Oscar Luigi Scalfaro, in seguito ad un diverbio avuto con una donna da lui giudicata poco vestita, presenterà addirittura un’interrogazione parlamentare per sapere “se e come si intenda frenare una moda che persino nelle città offende la morale e la dignità dei cittadini”, mentre nello stesso periodo la CGIL caldeggia un salario familiare, per l’uomo, che possa permettere “alla donna sposa e madre la tranquilla dedizione alla cura della famiglia”.
Mirella Serri ha dichiarato di aver scritto il libro per riflettere su quanto le dittature appena insediatesi decidano di colpire le donne, privandole dei loro diritti e riducendo progressivamente il loro spazio pubblico
Tante, però, sono le limitazioni che cadranno solo in tempi recentissimi: basti pensare alla riforma del diritto di famiglia, arrivata nel 1975, all’abrogazione del delitto d’onore nel 1981 o alla nuova rubricazione dello stupro, che solo nel 1996 cessa di essere delitto contro la morale per diventare finalmente delitto contro la persona. Più volte Mirella Serri ha dichiarato di aver scritto il libro per riflettere su quanto le dittature appena insediatesi decidano di colpire le donne, privandole dei loro diritti e riducendo progressivamente il loro spazio pubblico: dall’Iran, all’Afghanistan, passando per l’Ungheria di Orban, il quale ha dichiarato che per ridurre il calo demografico bisogna impedire alle donne di accedere all’istruzione superiore, con una tesi che ha trovato diversi consensi anche in Italia. Nonostante le statistiche sociali ed economiche siano ormai chiare su quanto la riduzione del ruolo della donna a schiava del focolare sia di fatto fallimentare, il fascino esercitato da queste ricette, di fatto mai riuscite, lascia intravedere quanto ancora la cultura fascista riesca ad attecchire facendo leva sulle paure più ataviche della mascolinità.