Gesellschaft | Commento

Nient'altro che la verità

Campagna per la sicurezza o campagna d’odio? Quando il racconto di un caso di cronaca corre il rischio di esasperare le tensioni tra popolazione locale e stranieri. Non dicendo tutta la verità.
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Foto: Summer School Südtirol

La settimana che è appena trascorsa ci ha rivelato alcuni aspetti cruciali della nostra società. Il tema è la violenza e il racconto della violenza. Un tema che s’intreccia in modo quasi inestricabile all’esercizio del potere e agli effetti che tale potere esercita sugli individui che ne dispongono, e dunque anche ne soffrono.

La prima scena la ricaviamo dalla cronaca. Un gruppo di giovani ha importunato una ragazza sudtirolese durante una festa tenutasi nei pressi dell’Hotel Sheraton di Bolzano. A difesa della ragazza sono intervenuti il fratello e un amico. Ne è nato un diverbio presto degenerato in modo violento. Il gruppo si è scagliato contro i due sudtirolesi, riducendoli in malo modo. Anche la ragazza è stata ferita. Gli aggressori si sono dileguati. I ragazzi sono finiti all’ospedale. Si è trattato di un fatto odioso. Qui il potere scaturisce da dinamiche primitive, la sua legge è la bruta sopraffazione. Ma la domanda che si pone diventa: qual è il modo più appropriato per rendere conto di fatti del genere?

La seconda scena si è aperta martedì scorso, sulle pagine del Dolomiten. Il modo con il quale si racconta ciò che è accaduto non è mai indifferente. Anche in questo caso c’entra il potere. Il potere dei mezzi d’informazione. Nel caso specifico il potere di dire e non dire. Perché un conto è affermare che gli aggressori sono un gruppo di albanesi; un altro è invece suggerire che, in fondo, questo gruppo è solo l’ennesima manifestazione di una tendenza più generale, una tendenza crescente, che riguarda potenzialmente tutti gli albanesi residenti in provincia, cioè gli albanesi in quanto tali, e con essi alla fine gli “stranieri” e tutti quelli che non s’identificano col “noi” costituito dal soggetto che sta raccontando.

Ma poi c’è qualcosa di più grave e inquietante. Si manifesta quando assieme alla sovraesposizione dei carnefici, ben oltre la loro legittima e circoscritta denuncia, si viene a sapere che le vittime sono strettamente legate alla famiglia dell’editore, e dunque l’attacco agli “stranieri” scaturisce dal sentirsi colpiti in prima persona. Eppure le vittime rimangono senza nome, ben sapendo che pronunciando quel nome anche la connotazione del modo di raccontare l’accaduto cambierebbe di molto. Certo, ci possono essere ottime ragioni per tacere il nome di una vittima. In primo luogo per proteggerla. Tali ragioni però finiscono anche col nascondere ciò che servirebbe a spiegare perché un problema, finora ritenuto soltanto grave, può invece all’improvviso diventare gravissimo, insopportabile, comunque buono per scatenare una condanna indiscriminata nei confronti di un’intera categoria di persone.

La Tageszeitung, giovedì, ha avuto il coraggio di fare il nome delle vittime. E ora dovrà probabilmente affrontare un processo in tribunale. Anch’esso un luogo di potere. Dove il testimone giura di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità.