Kultur | Langeriana

All’insegna del «giusto» langeriano

Lettera ad Alessandro Raveggi su Alex Langer poco dopo il trentennale dalla morte
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.
Campana Rovereto
Foto: Stefano Zangrando
  • Caro Alessandro Raveggi,

    qualche settimana fa, benché ci conoscessimo solo di nome, mi hai scritto per invitarmi alla presentazione, a Rovereto, del tuo libro su Alexander Langer, Continuate in ciò che è giusto, da poco uscito per Bompiani. Ci sono venuto, ti ho ascoltato e dopo la presentazione tu, io e il libraio Giorgio Gizzi abbiamo parlato del tuo libro e di Langer al tavolo di una trattoria.

    Qualche giorno dopo, il 3 luglio, a trent’anni esatti dalla sua morte volontaria, Alex Langer è stato commemorato anche in una manifestazione alla Campana dei Caduti (e "della pace") di Rovereto, alla presenza di Christine Stufferin, presidente della Fondazione Langer. C’era pure Gizzi, che su un banchetto aveva alcune copie del tuo libro accanto a quello che per l’occasione veniva presentato, Ciò che era giusto, un volume collettivo a firma di Goffredo Fofi, la cui dipartita si piange nelle ore in cui ti scrivo, e pubblicato dall’editore Alphabeta di Bolzano. Non so se tu abbia avuto modo di sfogliare o leggere questo volume, che come il tuo riprende nel titolo il messaggio lasciato da Langer prima di togliersi la vita al Pian de’ Giullari, a Firenze, e al pari del tuo guarda alle nuove generazioni come destinatari ideali del lascito di Alex – com’è opportuno chiamarlo, obliterando l’identificabilità “etnica” del nome.

    Il libro Alphabeta è, a mio avviso, un libro riuscito: dopo un’ottima introduzione dello storico Giorgio Mezzalira, la giovane studiosa Clara Bassan ricostruisce per capitoli le tappe biografiche di Langer, un percorso utile e chiaro per chi è nato e cresciuto dopo la sua morte; lo scritto di Fofi ne ricorda la prassi e il messaggio, affiancandolo ad altri compagni di strada – Mauro Rostagno e Luca Rastello su tutti – e invitando «ancora e sempre a non accettare il mondo così com’è»; un ricordo di Gad Lerner sottolinea il punto di giunzione fra il Langer della lotta per la convivenza in Alto Adige-Südtirol e quello impegnato in Europa e nel mondo; il sociologo Peter Kammerer ne riconsidera l’operato nel mondo tedesco confrontandolo con quel che sono diventati i Grüne in Germania – ossia quanto di più lontano da ciò che Alex contribuì a delineare agli esordi del movimento – e Daniel Cohn-Bendit, intervistato da Lucio Giudiceandrea, rilegge la lezione di Langer alla luce dell’oggi. Ma è soprattutto la piccola antologia di alcuni fra gli scritti più noti di Langer a colpire per forza e suggestione, offrendo, a giovani e non, un compendio molto attuale.

    L’operazione che hai tentato tu, caro Alessandro, è molto diversa e, sempre a mio avviso, è riuscita solo in parte – anzitutto per un minor supporto, si direbbe, da parte dell’editore e dei suoi editor, vista la quantità di refusi ed errori che costella le duecentotrenta pagine di testo. Dispiace, perché l’idea è buona, tu vieni dalla letteratura, la tua composizione è originale, persino audace, e l’intento oltremodo ambizioso, come si apprende fin dalla nota d’apertura: cogliere «l’essenza imperitura» di Alex, «sviluppare una visione narrativa del corpo e della mente di AL oggi» (qualunque cosa voglia dire) e insomma ospitare fra le pagine del tuo libro un Langer «vivente, non verosimile», pur girandoci «attorno» a partire dall’oggi e dal sé autoriale. Il tutto orientato ai tuoi giovani figli, che del libro sono i dedicatari. Anche per questo nel titolo hai scelto di coniugare al presente l’ultimo messaggio di «AL»: per ribadirne l’attualità e l’urgenza.

    Fiorentino quale sei, hai deciso di partire da un pellegrinaggio privo di pathos sul luogo del suicidio di Langer, cioè una camminata verso il Pian de’ Giullari, sulle colline che guardano Firenze da meridione. Il tuo incedere, che cerchi di sincronizzare con il «ritmo» che per te è Langer, ha qui e poi per tutto il libro il disordine forse voluto, certo un po’ langeriano, del vagabondaggio. Peccato si palesi fin da questi primi passi ciò che emerge e disturba in maniera crescente nel secondo capitolo, quello dedicato all’Alto Adige-Südtirol: un’inspiegabile e pervicace superficialità, a dispetto di ricerche e sopralluoghi, nel trattare la terra d’origine di Alex Langer, quel luogo storicamente e socialmente complesso dov’egli capì, dopo aver trascorso gli anni universitari a Firenze e quelli della militanza nella sinistra extraparlamentare a Roma, di dover tornare a operare nel 1978, a margine delle esequie del suo conterraneo e poeta maudit norbert c. kaser. Un passaggio esistenziale, quest’ultimo, più importante di altri nella biografia di Langer, ma che tu liquidi in poche righe, perché il Langer fiorentino e globalista ti interessa di più, molto di più: a costo di ridurre le origini e le battaglie di «AL» nella sua terra natia – senza le quali non è possibile comprenderlo – a una pratica da sbrigare con un soggiorno in loco prima di passare al resto.

    Tu chiami questa terra prima «Südtirol», solo in tedesco, poi «Tirolo», scambiandolo con la regione oggi a nord del Brennero; poco più avanti parli invece di «Sudtirolo» quando non esisteva ancora (fra l’epoca dell’indocile Michael Gaismair, che guidò le rivolte contadine locali, e quella del “patriota” conservatore Andreas Hofer); scrivi «Bozen/Bolzano» premettendo il tedesco all’italiano, forse in ossequio a certe diatribe toponomastiche in cui il conflitto etnico del Novecento si è stemperato negli anni della mia adolescenza, salvo poi manifestare un vago, spontaneo disgusto nei confronti di ciò che è tedesco o alpino e che qui viene ridotto a cliché: il freddo di Bolzano verrebbe non tanto dal clima, quanto «dal suo tedesco», il palazzo del b&b è «austero tanto che sembra austriaco» e il relativo appartamento è arredato con «una frugalità senza fronzoli al limite della sciatteria», mentre fuori dalla finestra le montagne senza neve sono «di una bruttezza unica». Del resto anche a Vipiteno, città natale di Langer, la stazione ti appare «sciattamente tedesca», mentre la neve «scarsissima» sulle vette ti «infonde tristezza»; se non altro quassù non ravvisi tutta la «biondità» che vedevi in centro a Bolzano (e che un bolzanino di nascita e crescita come me non ricorda di aver mai notato come prevalente); in compenso più avanti potrai ancora immaginare «un gruppo di tirolesi vestito pacchianamente in una festa nostalgica a Vipiteno», liquidando così il folklore locale.

    Non è tutto: tu scrivi «“gabbie” (Opzioni)» confondendo in uno strano binomio la lotta di Langer contro il censimento e la separazione etnica e quel che tu stesso, più sotto, ricordi essere stato il dramma dei sudtirolesi che nel 1939 dovettero scegliere se restare a vivere nell’Italia fascista o trasferirsi nel Reich (un episodio che Langer si limitò a paragonare alla logica delle gabbie etniche); peccato che cento pagine dopo tu rifaccia lo stesso errore parlando di «militanza [di Langer] contro le Opzioni»; rendi maschile l’SVP o Volkspartei, mutili i canederli locali chiamandoli «Speckknöde» (e vabbè), ma soprattutto fiuti «rigurgiti di secessione a ogni piè sospinto», come se cinquantatré anni di Secondo Statuto d’Autonomia e trenta di convivenza post-langeriana non avessero dato frutti, pur modesti, che qualunque abitante di questa agiata provincia potrebbe attestare anche solo in minima parte – salvo forse certi il cui «disagio» intuisci (a ragione!) nei quartieri periferici di Bolzano, che però ti guardi bene dal visitare (perché?). E tutto ciò mentre vorresti riecheggiare, canzonandolo nel titolo del capitolo, un reportage degli anni ottanta di Sebastiano Vassalli, che proprio Langer definì «la Bibbia dell’italiano incazzato» e che fu noto alle cronache per una diversa incomprensione della terra d’origine dello stesso Langer, a quell’epoca più cupa perché il conflitto etnico era ancora palpabile e posizioni come quelle di Vassalli contribuivano soltanto a nutrirlo. Il tuo passo falso, tuttavia, è di altra specie, giacché tu stesso ti riconosci «estraneo» all’Alto Adige-Südtirol, anche dopo averlo visto e aver trascorso qualche giorno alla Fondazione Langer, e giochi con questo elemento volgendolo infine in una trovata autofittizia, quella che ti porta a smarrirti in montagna quasi come un Ötzi contemporaneo e poi a tornare con la coda fra le gambe nella tua Firenze – non prima di aver ravvisato un’analogia tra l’uomo del Similaun e «la carcassa» (sic) di Alex Langer, e aver fatto il verso a uno slogan dell’indipendentismo sudtirolese d’antan. Ma tutto questo, se permetti, è sciatteria più di qualsiasi “tedescume” tu possa incontrare quassù.

    Peccato, dicevo, perché per il resto il libro spicca per originalità e qualche merito indiscutibile, come l’aver dato voce a Valeria Malcontenti, che di Langer fu la moglie ma che, dopo la di lui morte, è stata forse, della sua cerchia, la figura più lasciata da parte; come l’aver reso conto di un Langer “minore”, quello dei messaggi volanti e delle cartoline; come l’aver raccontato con partecipazione gli anni del giovane Alex nella Firenze di La Pira, Balducci, Mazzi e Agnoletti; come l’aver illustrato e attualizzato due battaglie-chiave del nostro, quella ambientalista e per l’eliminazione del debito del Sud del mondo e quella pacifista per l’ex Jugoslavia scossa da una guerra fratricida, ricordando da un lato il “pendolarismo” di un vero costruttore di ponti a Rio nel 1992 tra la prima conferenza internazionale sul clima e il Global forum, dall’altro il sofferto sostegno del Langer “facitore di pace” a un possibile intervento militare della comunità internazionale nei Balcani dopo la strage di Tuzla e poco prima dell’eccidio di Srebrenica, che Alex non giunse a vedere.

    Tanto il tuo libro quanto il volume collettivo di Alphabeta, infine, hanno il merito di aver evitato il sentimentalismo della commemorazione e la sterilità della nostalgia a vantaggio di un intento pedagogico orientato al futuro. Offrire alle nuove generazioni una sensibilità dialogica, interculturale, ambientalista e nonviolenta è quanto di più nobile e giusto oggigiorno si possa opporre al bellicismo ecocida che infuria a ogni latitudine, e la lezione di Alex Langer è fra gli esempi più sontuosi di cui disponiamo. Per volerla tramandare, tuttavia, occorrono forse più umiltà e spirito di servizio di quanto anche la meno corriva ambizione letteraria non conceda.

    Con ogni rispetto,

    SZ